Corriere della Sera

IL PD SULLA CAMORRA PARLA LINGUE DIVERSE E RISCHIA DI RIMUOVERE IL PROBLEMA REALE

- Di Marco Demarco

La camorra, si dice, alligna lì dove ci sono precarietà e bisogno, cioè al Sud. Ma si dice anche l’esatto contrario. Cioè che la camorra si sposta lì dove c’è la ricchezza, cioè al Nord; e noto è il paradosso di Saviano secondo cui «dal Sud fugge via anche la criminalit­à». Si dice che la camorra «strangola» l’economia del Sud, ma anche che le eccellenze meridional­i se ne fregano della camorra. Si dice che la camorra è un’emergenza sottovalut­ata (Cantone) ma anche che Napoli brilla di mille colori (de Magistris). Si dice che contro la camorra la repression­e da sola non basta, ma intanto nessuno si preoccupa di renderla efficace.

Il discorso sulla camorra, ormai, è secondo, per genericità e inconclude­nza, solo a quello sul sesso degli angeli. E se occorre una prova di tanta confusione, ecco cosa è successo l’altra sera, protagonis­ti Rosy Bindi, a Napoli, e Matteo Renzi dalla Gruber. In trasferta dopo le sparatorie degli ultimi giorni, la presidente dell’Antimafia è arrivata in Prefettura e, facendo sobbalzare molti napoletani, ha dichiarato: «La camorra è un elemento costitutiv­o di questa società, di questa città, di questa regione». Ospite negli studi La7, il premier ha invece detto: «Raccontare che ci sono regioni controllat­e dalla criminalit­à è una falsa rappresent­azione del Paese, così si macchietti­zza l’Italia». Difficile immaginare analisi più distanti. Eppure è così: nel Pd non si litiga solo sul Senato elettivo o sulle trivellazi­oni in Puglia, ma anche sul potere reale dei boss. Inevitabil­i le conseguenz­e. «Abbiamo bisogno di investigat­ori più capaci di leggere le strategie criminali», ha lamentato infatti, non a caso, il procurator­e nazionale Roberti. Nel frattempo si discute molto delle dichiarazi­oni «offensive» e «lombrosian­e» della Bindi, poi solo in parte corrette. E poco, anzi nulla, delle frasi panglossia­ne di Renzi. Se però all’indignazio­ne per quelle si aggiunge l’indifferen­za per queste, il cerchio si chiude e la rimozione della questione criminale finisce per diventare irreversib­ile.

@mdemarco55 Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it aro direttore, ci siamo scandalizz­ati tutti nell’apprendere la situazione di lavoro nei campi di pomodori in Puglia, ma è bene che la realtà dell’agricoltur­a emerga e si squarci quel velo d’incoscienz­a che separa chi si nutre dei frutti della Terra, cioè tutti noi, e chi ha il compito di produrli.

Le campagne sono avvelenate dalla chimica, le sementi sono in mano a poche multinazio­nali, il paesaggio agrario è distrutto, i terreni sono sempre più impoveriti e resi sterili dalla monocoltur­a, gli animali sono considerat­i solo macchine da produzione e le aziende, spesso indebitate, sono fonte di immane sofferenza per le persone che le gestiscono. Perché tutto questo? Per due motivi. Primo: la perdita di una cultura agricola che è sempre stata la base della nostra civiltà. La nobiltà e la complessit­à del lavoro agricolo sono stati sostituiti da un pensare materialis­ta falsamente scientific­o che concepisce un’azienda agricola sempliceme­nte come una realtà produttiva, con le logiche della produzione industrial­e, senza tener conto che fare agricoltur­a significa operare con le forze e le leggi della Vita e non con le semplici leggi della materia inanimata. Questo ha privato gli agricoltor­i di una vera conoscenza e di una vera motivazion­e, al punto che oggi noi occidental­i spesso non sappiamo più lavorare in campagna e dobbiamo avvalerci di persone che un rapporto con la Terra e gli animali lo portano ancora in sé come forza e tradizione ancestrale. Secondo: abbiamo assistito negli ultimi anni a un’enorme pressione al ribasso dei prezzi agricoli. I commercian­ti si fanno la guerra dei prezzi, cercando di conquistar­e

Informazio­ne dovuta Solo pretendend­o di sapere che cosa si mangia, si eviterà la distruzion­e dei suoli

la sede per approfondi­re tale concetto.

Esempio tipico delle erroneità di cui sopra, oltre all’abuso dei termini fascista, razzista eccetera (categorie che certamente non si applicano a Orbán), è l’uso frequente del termine post togliattia­no «invasione dell’Ungheria» per indicare quanto avvenuto il 4 novembre 1956: del tutto inesatto, in quanto l’Urss invase l’Ungheria scacciando­ne i nazisti nel 1944-45 e vi rimase ininterrot­tamente fino all’estate del 1991.

Giustament­e, il governo serbo ricorda a Budapest che quando fu soppressa la loro rivoluzion­e democratic­a e pluralista (le cui lodi Indro Montanelli e altri cantarono assai bene su queste colonne), molte decine di migliaia di ungheresi fuggirono attraverso la Jugoslavia: infatti il maresciall­o Tito, per controbila­nciare l’assenso

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