IL PD SULLA CAMORRA PARLA LINGUE DIVERSE E RISCHIA DI RIMUOVERE IL PROBLEMA REALE
La camorra, si dice, alligna lì dove ci sono precarietà e bisogno, cioè al Sud. Ma si dice anche l’esatto contrario. Cioè che la camorra si sposta lì dove c’è la ricchezza, cioè al Nord; e noto è il paradosso di Saviano secondo cui «dal Sud fugge via anche la criminalità». Si dice che la camorra «strangola» l’economia del Sud, ma anche che le eccellenze meridionali se ne fregano della camorra. Si dice che la camorra è un’emergenza sottovalutata (Cantone) ma anche che Napoli brilla di mille colori (de Magistris). Si dice che contro la camorra la repressione da sola non basta, ma intanto nessuno si preoccupa di renderla efficace.
Il discorso sulla camorra, ormai, è secondo, per genericità e inconcludenza, solo a quello sul sesso degli angeli. E se occorre una prova di tanta confusione, ecco cosa è successo l’altra sera, protagonisti Rosy Bindi, a Napoli, e Matteo Renzi dalla Gruber. In trasferta dopo le sparatorie degli ultimi giorni, la presidente dell’Antimafia è arrivata in Prefettura e, facendo sobbalzare molti napoletani, ha dichiarato: «La camorra è un elemento costitutivo di questa società, di questa città, di questa regione». Ospite negli studi La7, il premier ha invece detto: «Raccontare che ci sono regioni controllate dalla criminalità è una falsa rappresentazione del Paese, così si macchiettizza l’Italia». Difficile immaginare analisi più distanti. Eppure è così: nel Pd non si litiga solo sul Senato elettivo o sulle trivellazioni in Puglia, ma anche sul potere reale dei boss. Inevitabili le conseguenze. «Abbiamo bisogno di investigatori più capaci di leggere le strategie criminali», ha lamentato infatti, non a caso, il procuratore nazionale Roberti. Nel frattempo si discute molto delle dichiarazioni «offensive» e «lombrosiane» della Bindi, poi solo in parte corrette. E poco, anzi nulla, delle frasi panglossiane di Renzi. Se però all’indignazione per quelle si aggiunge l’indifferenza per queste, il cerchio si chiude e la rimozione della questione criminale finisce per diventare irreversibile.
@mdemarco55 Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it aro direttore, ci siamo scandalizzati tutti nell’apprendere la situazione di lavoro nei campi di pomodori in Puglia, ma è bene che la realtà dell’agricoltura emerga e si squarci quel velo d’incoscienza che separa chi si nutre dei frutti della Terra, cioè tutti noi, e chi ha il compito di produrli.
Le campagne sono avvelenate dalla chimica, le sementi sono in mano a poche multinazionali, il paesaggio agrario è distrutto, i terreni sono sempre più impoveriti e resi sterili dalla monocoltura, gli animali sono considerati solo macchine da produzione e le aziende, spesso indebitate, sono fonte di immane sofferenza per le persone che le gestiscono. Perché tutto questo? Per due motivi. Primo: la perdita di una cultura agricola che è sempre stata la base della nostra civiltà. La nobiltà e la complessità del lavoro agricolo sono stati sostituiti da un pensare materialista falsamente scientifico che concepisce un’azienda agricola semplicemente come una realtà produttiva, con le logiche della produzione industriale, senza tener conto che fare agricoltura significa operare con le forze e le leggi della Vita e non con le semplici leggi della materia inanimata. Questo ha privato gli agricoltori di una vera conoscenza e di una vera motivazione, al punto che oggi noi occidentali spesso non sappiamo più lavorare in campagna e dobbiamo avvalerci di persone che un rapporto con la Terra e gli animali lo portano ancora in sé come forza e tradizione ancestrale. Secondo: abbiamo assistito negli ultimi anni a un’enorme pressione al ribasso dei prezzi agricoli. I commercianti si fanno la guerra dei prezzi, cercando di conquistare
Informazione dovuta Solo pretendendo di sapere che cosa si mangia, si eviterà la distruzione dei suoli
la sede per approfondire tale concetto.
Esempio tipico delle erroneità di cui sopra, oltre all’abuso dei termini fascista, razzista eccetera (categorie che certamente non si applicano a Orbán), è l’uso frequente del termine post togliattiano «invasione dell’Ungheria» per indicare quanto avvenuto il 4 novembre 1956: del tutto inesatto, in quanto l’Urss invase l’Ungheria scacciandone i nazisti nel 1944-45 e vi rimase ininterrottamente fino all’estate del 1991.
Giustamente, il governo serbo ricorda a Budapest che quando fu soppressa la loro rivoluzione democratica e pluralista (le cui lodi Indro Montanelli e altri cantarono assai bene su queste colonne), molte decine di migliaia di ungheresi fuggirono attraverso la Jugoslavia: infatti il maresciallo Tito, per controbilanciare l’assenso