LA DURA REALTÀ DEL DEFICIT
Con l’aggiornamento del Def, il Documento di economia e finanza che verrà approvato domani dal Consiglio dei ministri, va dato atto al governo di essere stato, una volta tanto, prudente nelle sue stime dello scorso aprile, tanto da doverle rivedere in meglio anziché in peggio. La crescita del Prodotto interno lordo sarà superiore al previsto, sia quest’anno (0,9% invece di 0,7%) che nei prossimi. E ciò è dovuto non solo a fattori esterni, forse irripetibili nella loro coincidenza, ma anche alle decisioni di politica economica che, alla fine, cominciano a produrre qualche effetto positivo sui consumi e sull’occupazione, sia pure ancora inferiori alle attese. Visti questi primi risultati, fa bene il governo ad insistere sulla linea intrapresa: taglio delle tasse e manovra espansiva. Ma est modus in rebus.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, annuncia che con la prossima legge di Stabilità, una manovra da 27 miliardi nel 2016 per evitare che aumentino le tasse (le cosiddette clausole di salvaguardia su Iva e accise che valgono 16 miliardi) e per tagliarne altre (da quelle sulla prima casa agli sgravi sul lavoro e per il Mezzogiorno), l’Italia sfrutterà i margini di flessibilità previsti delle regole europee fino a un punto di Pil, ovvero fino a 17 miliardi di euro, per finanziare gli interventi previsti. Ora, è bene chiarire che la formula «margini di flessibilità» ha un impatto diretto sul deficit. Ovvero: quando un governo chiede alla commissione di utilizzare i margini significa che sta chiedendo il via libera per aumentare il proprio deficit in rapporto al Pil.
Per il 2016 l’Italia ha già ottenuto il permesso di far salire il deficit dall’1,4% tendenziale all’1,8%, grazie alle riforme per la crescita messe in campo. Si tratta di 6,4 miliardi di euro, che insieme con 10 miliardi di tagli della spesa pubblica (spending review) andranno a disinnescare le clausole di salvaguardia. In teoria rimarrebbe un altro 0,6% di margine di flessibilità, cioè una decina di miliardi di ulteriore espansione del deficit, che potrebbe essere concesso a fronte non solo delle riforme ma delle altre due condizioni previste dalle regole europee: il cofinanziamento di investimenti infrastrutturali; il dover far fronte a crisi, emergenze e calamità (gli immigrati?).
Renzi ha già detto che non intende utilizzare tutti i margini potenziali, anche perché sa benissimo che la Commissione europea non glielo concederebbe. E il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha precisato ieri alla Camera che il deficit nel 2016 non veleggerà verso il 3% e sarà inferiore al 2,6% previsto per quest’anno. Ma al di là di questo c’è una considerazione che dovrebbe consigliare prudenza al governo. Può un Paese con un debito pubblico di oltre il 130% del Prodotto interno lordo, che ogni anno si presenta sui mercati per chiedere circa 400 miliardi di euro di prestiti collocando titoli di Stato, finanziare quasi due terzi della manovra in deficit? Che fine farebbe la promessa di basare la credibilità della stessa sui tagli strutturali della spesa pubblica?
Il governo sa bene che la lunga stagione dei bassi tassi d’interesse potrebbe finire e che per l’Italia resta una priorità non prestare il fianco alla speculazione. Una maggior credibilità è stata conquistata al prezzo di anni di sacrifici senza precedenti. Ora dobbiamo consolidarla e non esporla al rischio di manovre con il passo più lungo della gamba.