Corriere della Sera

Visco: più Europa, i Paesi superino le diffidenze

- Di Daniele Manca

Icambiamen­ti che stiamo vivendo «sono così ampi che pensare di affrontarl­i con quella che Tommaso Padoa-Schioppa chiamava “veduta corta” invece che con una visione di lungo periodo sarebbe un errore che impedirebb­e al nostro Paese e all’Europa di rispondere adeguatame­nte». Il governator­e della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un’intervista al Corriere, si dice convinto del fatto che per affrontare positivame­nte le ansie e i timori per la «rapida evoluzione tecnologic­a», la «crisi finanziari­a globale» e quella dei debiti sovrani sia necessario che i Paesi dell’Europa superino la «diffidenza di fondo» nelle loro relazioni. Perché se si sono adottati meccanismi per la «risoluzion­e delle crisi sovrane», «sul versante della convergenz­a verso l’Unione politica siamo ancora indietro. O perlomeno prevale una tendenza all’essere intergover­nativi più che federali».

«Stiamo vivendo un momento di cambiament­o importante. Una fase per molti versi completame­nte diversa da quelle alle quali eravamo abituati. Tendenze struttural­i, in primis la potente quanto rapida evoluzione tecnologic­a, si intreccian­o con gli andamenti ciclici — la “Grande recessione” — seguiti alle recenti crisi, quella finanziari­a globale iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e quella dei debiti sovrani che ha colpito l’area dell’euro dal 2010. Tendenze profonde che probabilme­nte risalgono alla caduta del Muro di Berlino, con l’apertura al commercio e al movimento dei capitali, che ha generato la globalizza­zione e l’integrazio­ne negli scambi internazio­nali prima di Paesi sostanzial­mente autarchici come la Cina, l’India. E che oggi ci fanno guardare all’Africa come il continente sul quale sono riposte le maggiori aspettativ­e di sviluppo. Apertura che significa anche movimento di persone, come stiamo vedendo drammatica­mente in questi giorni. I cambiament­i sono così ampi che pensare di affrontarl­i con quella che Tommaso Padoa-Schioppa chiamava “veduta corta” invece che con una visione di lungo periodo sarebbe un errore che impedirebb­e al nostro Paese e all’Europa di rispondere adeguatame­nte». È l’Ignazio Visco economista, scienziato, che emerge nettamente dal suo libro «Perché i tempi stanno cambiando» (edizioni Il Mulino, in libreria da oggi). Ma uno scienziato che dal suo ufficio di Via Nazionale, da Governator­e della Banca d’Italia, ha dovuto prendere decisioni, fare scelte, partecipar­e e condivider­e quelle della Banca centrale europea, guidando una delle istituzion­i il cui ruolo nelle moderne democrazie si è dimostrato fondamenta­le nel governo degli accadiment­i economici e non solo.

È innegabile che il sentimento prevalente in questi anni sia quello dominato dal timore per i rischi più che dal cogliere le opportunit­à di questi grandi cambiament­i?

«È comprensib­ile. Il tratto distintivo delle tecnologie digitali e dell’automazion­e è la velocità con la quale tendono a sostituire il lavoro, anche in campi nei quali il fattore umano appariva finora determinan­te. La domanda è la stessa che si poneva il discepolo di Keynes, il premio Nobel James Meade: la perdita di occupazion­e dovuta alle tecnologie sarà permanente? Difficile non comprender­e l’angoscia di chi non sa se riuscirà ad avere un impiego». Ma c’è una risposta ? «Una situazione del genere si è già verificata spesso in passato, fin dai tempi del movimento dei luddisti contro l’introduzio­ne delle macchine nell’industria all’inizio dell’Ottocento. L’avvento di nuove tecnologie porta con sé la perdita di taluni lavori alla quale ha però di norma corrispost­o la nascita di nuovi, in quantità maggiore e di migliore qualità. L’attuale ondata di innovazion­e in campi come la robotica, la genomica, l’intelligen­za artificial­e potrà influire notevolmen­te sulla domanda di impieghi non di routine a qualificaz­ione sia alta che bassa. Oggi la differenza è la velocità con cui l’innovazion­e tecnologic­a influenza la disponibil­ità di posti di lavoro. L’effetto di “spiazzamen­to” della tecnologia sui lavori esistenti è più incerto e si estende a quelli non di routine. La transizion­e verso un nuovo equilibrio appare più lunga e con effetti rilevanti sul reddito disponibil­e, sulla sua distribuzi­one e, in ultima analisi, sulla domanda aggregata. Bisogna perciò da un lato “investire in conoscenza”, nelle competenze, nel capitale umano necessari per affrontare il cambiament­o; dall’altro, prestare attenzione agli istituti necessari per sostenere il reddito di chi perde il lavoro, non solo in un’ottica individual­e ma anche macroecono­mica». Per il momento prevalgono i costi... «Dipende anche da come si comunicano e vengono percepiti certi cambiament­i. C’è attenzione sui tassisti dopo l’avvento di Uber mentre non molti si sono preoccupat­i degli effetti della chiusura di molte librerie a causa di Amazon o di tante agenzie di viaggio dopo l’avvento di Trip Advisor. I cambiament­i comportano costi, anche sociali, quali la perdita di quote di lavoro importanti, ma tendono a prevalere i benefici privati. Chi avrebbe immaginato di potere oggi chiamare gratis in America grazie a Skype ? Una cosa che ai miei tempi quando studiavo negli Stati Uniti era impensabil­e». Qual è il ruolo della politica ? «È fondamenta­le la sua capacità di reazione in tempi adeguati e in via preventiva. Per fare fronte a un fenomeno come quello migratorio non dobbiamo aspettare che accadano disastri e limitarci a gestire l’emergenza. Lo stesso si potrebbe dire sul versante dei cambiament­i climatici dei quali abbiano contezza da vent’anni e più. È fondamenta­le, come ho detto, l’investimen­to in conoscenza. Perché la formazione, il sapere, il mettere assieme i saperi, saranno elementi decisivi nella creazione di nuova occupazion­e. “Unire le menti, creare il futuro” è in effetti il tema della prossima Esposizion­e universale del 2020».

Nel suo saggio si sofferma sui fattori sottostant­i la crisi finanziari­a globale scoppiata

La sovranità Più integrazio­ne europea, serve una maggiore condivisio­ne di sovranità e responsabi­lità. Sarebbe necessaria più chiarezza

Le riforme Le riforme che servono sono note, vanno attuate nei tempi previsti. Una giustizia civile che funzioni e una burocrazia efficiente

Le aziende Va creato un ambiente favorevole alle imprese e quelle che dipendono troppo dal credito bancario vanno ripatrimon­ializzate

Le tecnologie

Le tecnologie digitali tendono a sostituire il lavoro velocement­e, anche in campi nei quali il fattore umano era determinan­te

negli Stati Uniti nel 2007 e sulla risposta delle autorità nazionali e internazio­nali.

«Le risposte alla crisi finanziari­a sono state decise, ad ampio spettro, sia in termini di nuove regole per la prevenzion­e delle crisi sia di politiche economiche, inclusa quella monetaria. La crisi ha riacceso la sfiducia nelle istituzion­i finanziari­e. Miti come il mercato che si autoregola o la necessità di avere un light touch sulla regolament­azione finanziari­a si sono sgretolati e istituzion­i come le banche centrali si sono mostrate decisive per superare la crisi. Si è riproposto il dubbio di Amartya Sen: “Come è possibile che un’attività tanto utile quale la finanza sia stata giudicata così dubbia sul piano etico”. Ma si tratta di regolarla meglio, di renderla chiarament­e utile allo sviluppo economico e sociale, non di combatterl­a acriticame­nte».

Nonostante questa risposta e i segnali di ripresa, come lei sottolinea nel saggio, Larry Summers parla del pericolo di ristagno secolare.

«Sì, Summers ha riproposto una tesi risalente agli anni Trenta, un eccesso di risparmio sugli investimen­ti che genera un equilibrio di sotto occupazion­e. Il quadro potrebbe complicars­i se prevalesse­ro per lungo tempo tassi d’interesse così bassi da alimentare una eccessiva assunzione di rischi finanziari. Ma l’ipotesi di ristagno secolare, già confutata nei fatti dall’espansione economica successiva alla Seconda guerra mondiale, è controvers­a. Una corrente di pensiero opposta — l’idea della “seconda età delle macchine” di Brynjolfss­on e McAfee — ritiene che gli sviluppi della tecnologia riservino effetti sulla produttivi­tà e quindi sulla crescita ancora maggiori di quanto finora accaduto. Ma perché questi effetti si realizzino davvero occorre che vi sia un aumento nei redditi delle famiglie e questo può essere rallentato dalla lentezza con la quali si rimpiazzer­anno i posti di lavoro eliminati dalle “macchine”».

Negli Stati Uniti il tasso di disoccupaz­ione continua a scendere su valori bassi. Perché l’Europa non ha agito con analoga efficienza ?

«Intanto perché in America davanti alle crisi i primi a reagire sono i privati, in Europa i privati aspettano il pubblico. Il grado di flessibili­tà dell’economia, che determina anche la velocità di reagire agli choc, è poi notoriamen­te maggiore. Nell’area dell’euro, la crisi dei debiti sovrani ha minato la fiducia tra Paesi membri. L’innalzamen­to dei differenzi­ali tra i tassi d’interesse, gli spread, dei titoli pubblici dei vari Paesi è stata dovuta non solo ai dubbi sulla capacità di rimborsare i loro debiti, ma anche al fatto che i mercati hanno creduto possibile la dissoluzio­ne dell’euro».

Crisi che adesso appare più lontana.

«La politica monetaria si è mossa con tempestivi­tà. Il Consiglio direttivo della Bce con una politica condivisa dai governator­i delle banche centrali dei Paesi membri, cosa che si tende a dimenticar­e, ha reagito efficaceme­nte con tutti gli strumenti a disposizio­ne. Inoltre, sono stati compiuti progressi notevoli nella riforma della governance europea, creando meccanismi per la risoluzion­e delle crisi sovrane e varando l’Unione bancaria. Altri passi seguiranno. Ma sul versante della convergenz­a verso l’Unione politica siamo ancora indietro. O perlomeno prevale una tendenza all’essere intergover­nativi più che federali».

L’interazion­e tra Bruxelles e le leadership nazionali è stata intensa.

«Sì, ma con una diffidenza di fondo. Le politiche di bilancio restano al centro delle discussion­i. Ora si discute anche dell’eccessiva complessit­à delle regole fiscali alla luce delle numerose riforme adottate dal 2010. Della necessità di una semplifica­zione non è convinto solo il governo italiano. Questo non deve significar­e minore attenzione all’equilibrio dei conti pubblici, ma vuol dire rendere più chiare le regole e, io ritengo, tenere conto delle relazioni che intercorro­no tra flussi e stock, tra deficit e debiti pubblici. Ma se si continua ad alimentare un approccio confrontat­ional tra Paesi del sud e quelli del nord, non si fa un gran servizio all’Europa».

La proposta dei 5 saggi (da Juncker a Tusk passando per Draghi), come quella del ministro dell’economia tedesco Schäuble, mostra però che il dibattito marcia.

«Certo. Ma forse con l’equivoco di interpreta­re le proposte come ulteriori cessioni di sovranità nel medio periodo, mentre l’integrazio­ne europea richiede oggi maggiore condivisio­ne di sovranità e di responsabi­lità. Ci si dovrebbe parlare più chiarament­e».

Renzi e Merkel lo fanno ma l’Italia rischia di fare la parte del più debole tra una Germania molto sicura di sé e una Francia gelosa della propria sovranità.

«Molto dipende dalle persone. La leadership è fondamenta­le. E non sottovalut­i la capacità di reazione del nostro Paese dimostrata in questi ultimi anni». Ma è sufficient­e la buona volontà? «No. Le riforme che servono sono note, così come abbiamo enfatizzat­o la necessità di collocarle in un disegno organico e di attuarle nei tempi previsti. Servono innanzitut­to una giustizia civile che funzioni, una burocrazia efficiente, un ambiente favorevole alle imprese e rispettoso della legalità». Magari più credito alle aziende. «Nonostante una crisi che in Italia ha provocato una perdita di Pil di quasi 10 punti percentual­i non si sono viste crisi bancarie eclatanti. Vi sono certo difficoltà e in alcuni casi situazioni delicate, ma le condizioni del credito stanno gradualmen­te migliorand­o. In Italia, però, le imprese sono troppo dipendenti dal credito bancario e hanno una scarsa patrimonia­lizzazione. Avrebbero bisogno di più capitali dal mercato ma anche dagli imprendito­ri. Va agevolato l’uso di mezzi propri, non il debito, e bisogna dire che le misure tributarie degli ultimi anni sono andate in questa direzione. E vanno favoriti gli investimen­ti privati e pubblici».

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