Corriere della Sera

LA GRANDE AMERICA TRA CUBA E GLI USA

La doppia visita del Papa a Castro e al Congresso Usa da capo spirituale di un continente a leadership cattolica

- Di Massimo Franco

La visita del Papa a Castro e al Congresso Usa da capo spirituale di un continente a leadership cattolica. «I popoli latinoamer­icani devono dialogare per creare la Patria Grande».

La marcia di avviciname­nto alle Americhe è stata tutt’altro che casuale. Non conta tanto la Giornata mondiale della gioventù in Brasile dell’estate del 2013: quella era stata preparata dal predecesso­re, Benedetto XVI. Il viaggio che Francesco ha voluto fortemente, invece, è stato quello del luglio del 2015, scegliendo tre nazioni periferich­e, povere, «minori» come Bolivia, Ecuador e Paraguay. Terre dove la sua enciclica Laudato si’, con forti echi ecologici e sociali, poteva tradursi immediatam­ente in realtà; e dove il Papa ha potuto rintuzzare le critiche contro un’enciclica «verde» e «militante», arrivate dai conservato­ri statuniten­si. Anche se in uno dei suoi discorsi, quello ai movimenti popolari, qualcuno ha notato una durezza eccessiva contro il capitalism­o. Francesco si è anche sentito rimprovera­re di parlare poco di classe media. Ma, ha spiegato, «il mondo è polarizzat­o, la classe media diventa sempre più piccola e la polarizzaz­ione tra ricchi e poveri è grande». Dietro le sue parole si intravede la sagoma delle

villas miserias, le sterminate periferie suburbane di Buenos Aires; e di centinaia di altre simili a Rio de Janeiro, San Paolo, e in altre megalopoli. È lì che Bergoglio ha plasmato la sua «teologia del popolo» alternativ­a a quella della liberazion­e. Il groviglio di problemi che queste realtà offrono sono il primo dono pesantissi­mo che porge agli Stati Uniti: una frontiera avanzata non solo per la società ma per la Chiesa. Per questo l’ex arcivescov­o di Buenos Aires non può essere etichettat­o con categorie europee o, peggio, italiane. È un prete urbano, anzi di una megacity. Il secondo «dono» portato a Washington a fine settembre è Cuba: la tappa ultima del suo passaggio a Sudovest. I tre giorni nell’isola caraibica distrutta dalla dittatura comunista della famiglia di Fidel e Raúl Castro, ma anche dall’embargo statuniten­se, rappresent­ano una visita all’insegna della geopolitic­a...

La genuflessi­one corale di tutti i capi di Stato latinoamer­icani, conservato­ri e progressis­ti, nei confronti di Francesco lo porta al cospetto di Obama e del Congresso degli Stati Uniti come il capo spirituale dell’intero Sudamerica: la nuova figura egemone di un continente che sta cercando una nuova unità e nuovi equilibri economicos­ociali. «I popoli latinoamer­icani devono dialogare per creare la Patria Grande», ha insistito il Papa sul volo che lo riportava a Roma dall’Ecuador a metà luglio. La novità storica è che questo dialogo non avviene più sotto le insegne del socialismo marxista o delle dittature militari sostenute più o meno apertament­e dagli Usa in chiave anticomuni­sta. La leadership è cattolica. Anzi, papale. Resa possibile dalla statura e dai cromosomi culturali di un pontefice «meridional­e».

Francesco è l’uomo della riconcilia­zione. In America Latina, questo significa far cadere l’ultimo «muro di Berlino», e cioè il «muro dell’Avana»; e altri muri invisibili, nascosti negli archivi segreti e nella memoria collettiva di quei popoli. Significa consegnare al passato le guerre civili combattute in nome del marxismo e del capitalism­o, con la Chiesa cattolica e i suoi episcopati nel ruolo di vittime, a volte di complici. Ha colpito molto il regalo fatto a Francesco dal presidente boliviano Evo Morales: un crocifisso con la falce e il martello, opera di padre Luís Espinal, ucciso negli anni Ottanta perché difendeva i poveri e la democrazia. Qualcuno ha voluto vedere un abbraccio postumo della teologia della liberazion­e di matrice marxista da parte del pontefice. In realtà, con quel gesto Morales ha riconosciu­to al Papa una leadership mai attribuita prima alla Chiesa.

L’Unione Sovietica è morta e sepolta, e non ha più nessun potere su quel mondo. Rassicurat­i, gli Usa si sono defilati. Ed è emersa la sfera d’influenza di un romano pontefice argentino. Negli Stati Uniti arriva dunque da capo di un Sud del mondo da intendere ben al di là dei confini latinoamer­icani; rintraccia­bile in ogni periferia, dall’Europa all’Africa, agli stessi ghetti statuniten­si. Su questo sfondo si comprendon­o meglio i suoi viaggi nelle zone apparentem­ente più eccentrich­e. Ma per paradosso il suo viaggio più eccentrico è proprio quello nell’America del Nord: potante tenza industrial­e, militare, economica e cuore dell’«impero» dell’Occidente. Quando gli hanno riferito delle critiche alla sua enciclica sui cambiament­i climatici provenient­i dagli Usa, Francesco ha risposto, sornione: «Fino a oggi avevo studiato i dossier su questi tre Paesi bellissimi. Ora studierò Cuba e gli Stati Uniti».

In realtà li sta studiando da mesi, attraverso documenti e analisi affidate ad alcuni vescovi e cardinali americani fidati, e a un gruppo ristretto di consiglier­i latinoamer­icani. Ma soprattutt­o, gli Stati Uniti stanno studiando lui. La Religious Newswriter­s Associatio­n ha organizzat­o a Filadelfia nell’agosto del 2015, presso la Pontifical University Santa Croce, una giornata intera di dibattito sulla Chiesa negli Usa: con molti vescovi statuniten­si e duecento giornalist­i dei maggiori media americani. E come «Vatican insiders», e cioè conoscitor­i del Vaticano dal di dentro, ha chiamato padre Thomas Rosica, canadese, direttore della tv cattolica Salt and Light, la più impor- del suo Paese; e l’uruguayano Guzmán Carriquiry, vicepresid­ente del Pontificio consiglio per l’America Latina, consiglier­e e amico storico di Bergoglio.

A loro è toccato aprire la strada alla comprensio­ne di Francesco; e spiegare quali contrappos­izioni avrebbe cercato di evitare, scegliendo un terreno che andasse oltre le categorie dei «liberal» e dei «conservato­ri», che per anni hanno avvelenato anche l’episcopato statuniten­se. Intanto, c’era l’ammissione che il Papa non conosceva «a fondo, in prima persona questo grande Paese, la sua società complessa e dinamica». Doveva affidarsi «alla tradizione e alla sapienza della Santa Sede», e stare «in attento ascolto dell’episcopato statuniten­se». Si fotografav­a la realtà di un episcopato diviso secondo categorie e schemi nei quali il Papa rifiuta di farsi ingabbiare. Secondo i suoi esegeti, Francesco va molto al di là della polarizzaz­ione tra conservato­ri e liberal. Additano tuttavia il rischio di una saldatura tra i due fronti statuniten­si, tentati di vedere nel pontefice chi vorrebbe cambiare la dottrina della Chiesa. Accusa insidiosa, confutata opponendol­e la capacità di riscoprire in forme sempre nuove il messaggio evangelico…

Era una difesa preventiva di Bergoglio: il tentativo di neutralizz­are in anticipo accuse come quella di essere in contrappos­izione coi suoi predecesso­ri; e di rinunciare a difendere i valori non negoziabil­i. L’insistenza sull’immigrazio­ne come ricchezza da non disperdere né umiliare era il corollario naturale di questa impostazio­ne. Si legava all’esigenza di arricchire la libertà di professare la propria fede, e di permettere la migliore convivenza tra religioni diverse: una caratteris­tica sulla quale storicamen­te gli Stati Uniti erano stati maestri. Ma gli uomini di Bergoglio avvertivan­o anche che dal Papa non sarebbe potuta mancare «una parola forte» sugli immigrati ispanici. Si sottolinea­va con orgoglio che erano stati i primi esplorator­i, colonizzat­ori e missionari degli Stati Uniti.

Francesco avrebbe invece insistito sul fatto che «la pastorale ispanica non è un’aggiunta a una supposta pastorale ufficiale anglocentr­ica»: anche perché ormai i «latinos» stanno diventando la metà della popolazion­e. Il suo viaggio diventa dunque anche una rilettura della storia nordameric­ana. La decisione di Francesco di canonizzar­e a Washington il 24 settembre del 2015 frate Junípero Serra, un francescan­o del XVIII secolo considerat­o «l’apostolo dell’America», ha il significat­o di riscoprire le radici di un cattolices­imo a stelle e strisce arrivato in California prima delle grandi migrazioni di irlandesi, italiani, polacchi sulla costa atlantica. D’altronde, era stato lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, nel suo saggio Una nazione di immigrati, a sottolinea­re la rimozione di un’intera fase della storia statuniten­se negli Stati del Sud.

«Disgraziat­amente», scriveva Kennedy, «sono troppi gli americani che credono che l’America fu scoperta nel 1620... e dimentican­o la formidabil­e avventura che ebbe luogo nel XVI e all’inizio del XVII secolo nel Sud e nel Sudest degli Stati Uniti». Era una storia scritta dai vincitori e per i vincitori, secondo molti latinoamer­icani. Figlia, a loro avviso, di pregiudizi anticattol­ici e anti ispanici. Pregiudizi che tardano a morire. Junípero Serra è considerat­o invece parte integrante dell’epopea missionari­a cattolica dimenticat­a: per questo lo Stato della California fece installare una sua statua nella Sala dei Notabili del Campidogli­o di Washington nel 1931. Il fronte protestant­e ha descritto quel sacerdote di Maiorca arrivato in California a metà del 1700 come un colonialis­ta che convertiva a forza i nativi indiani. Ma la narrativa cattolica vede in questa descrizion­e negativa soprattutt­o il tentativo di coprire la colonizzaz­ione violenta dell’Ovest ai tempi della «febbre dell’oro» da parte yankee...

 ??  ?? I preparativ­i Un poster che annuncia la visita del Papa a Santiago di Cuba, seconda città dell’isola
(Afp)
I preparativ­i Un poster che annuncia la visita del Papa a Santiago di Cuba, seconda città dell’isola (Afp)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy