La vittima e Alex di fronte in aula «Sono forte, nonostante l’acido»
Il ragazzo colpito per un errore di persona mostra il suo viso. Boettcher sorride
Stefano indossa una felpa nera e quando entra in aula, con coraggio e a testa alta, si toglie il cappellino da baseball. È la prima volta che mostra in pubblico il suo volto sfigurato dall’acido, con l’occhio, il naso, l’orecchio che hanno perso una forma e ancora non l’hanno riacquistata. Neanche dopo dieci mesi di dolorosissime cure e quindici interventi chirurgici. Si nota, Stefano Savi, 25 anni, perché è un ragazzo alto, energico. Ci sa fare, in mezzo alla gente. È arrivato in Tribunale coi legali Benedetta Maggioni e Andrea Orabona, col papà Alberto, con il suo gruppo di amici. Moltissimi. Tutti a fargli scudo. Non fosse che lui, di scudi, non pareva averne neanche bisogno. «Mi sentivo forte, fortissimo, a dispetto dell’acido che mi ha cambiato la faccia. Tornando indietro, lo rifarei», ha detto poi, una volta a casa, ripensando ai timori dei giorni precedenti e al suo gesto.
Lui è già seduto in aula, quando arriva Alexander Boettcher. Il broker di origine tedesca, già condannato a 14 anni in primo grado (insieme all’amante Martina Levato) per lo
La reazione Non speravo in una confessione, ma credevo ci sarebbe stata una parola, un’emozione
sfregio a Pietro Barbini, ora è imputato per altre aggressioni, inclusa quella a Savi. Lo guarda per un attimo, prima di entrare nella gabbia degli imputati, ma è una frazione di secondo. Quando Stefano dopo un po’ se ne va, sfilandogli davanti, è il momento in cui i due si trovano più vicini, divisi solo dalle sbarre. Boettcher resta in piedi, fissa in volto il ragazzo che secondo l’accusa è la sua vittima, lo segue con espressione impassibile, un sorriso sprezzante, di sfida. La guardia carceraria si commuove, lui pare di no.
«Non speravo in una confessione ma credevo ci sarebbe stata una parola, un segno, un’emozione», dice Stefano. Nessuno può sapere, in realtà, se la sua presenza abbia provocato «invisibili» emozioni o qualche forma di empatia, in Boettcher. Che dalla gabbia, ieri, scrutava tra i banchi. Scalpita d’improvviso quando vede tra la folla un’ex amica di Martina tanto da chiamare il suo avvocato, perché il giudice la faccia uscire. Si innervosisce quando uno dei testi, Antonio Margarito, ricorda una notte di flirt con Martina Levato. Spesso consulta fogli che ha archiviato nella sua cartelletta verde (in una cartelletta era contenuta anche, secondo la ricostruzione del presunto complice Andrea Magnani, la lista delle future vittime). Cerca di «comandare» le eccezioni che dovranno muovere i suoi legali. Ancora, ride arrogante quando Maria Josè Falcicchia, dirigente dell’ufficio prevenzione generale della Polizia che da teste ha ricostruito la vicenda, parla di fucili ad acqua (con quelli intendevano lanciare acido senza doversi avvicinare troppo, secondo le ricostruzioni investigative). O quando il pm Marcello Musso nomina i cerotti bianchi (che i due usavano per non farsi riconoscere durante gli appostamenti). Si agita di nuovo quando vengono citate le scarpe numero 44 («io non ho quel numero»). E siccome lui stesso, descritto dall’accusa come l’organizzatore, è sempre stato attento ai dettagli, molti hanno notato i vestiti scelti per l’udienza: tuta da boxe, azzurra con il tricolore, e la marca evidente sul petto: «Leone».
Nei confronti di Boettcher, Levato e Magnani, l’accusa principale, pesantissima, è di associazione per delinquere. Sotto esame l’attacco a Stefano; l’agguato non riuscito (sempre con l’acido) a Giuliano Carparelli; il tentativo di evirazione a Margarito (di cui è accusata solo Martina). «Una sequenza criminale con un movente futile — come ha ricostruito Falcicchia —: purificare il passato sessuale della ragazza». In questa catena Stefano è entrato solo per uno scambio di persona. Per un drammatico, banale «sbaglio».