SE L’ICONA DELLA LIBERTÀ NEGA IL DIRITTO DI PAROLA
L’icona della libertà, ridotta al silenzio per quasi vent’anni, ora — a meno di due mesi dalle elezioni parlamentari in Birmania (8 novembre) — zittisce i suoi stessi candidati: «Vietato parlare con i media per tre settimane», è il diktat del partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia (Nld). Strano e paradossale concetto di che cosa sia una campagna elettorale, in un Paese che, dopo decenni di feroce dittatura militare, sta faticosamente cercando di ritrovare un posto di diritto nella comunità delle nazioni. La leadership dell’opposizione ha una spiegazione per tutto ciò: «Molti dei nostri candidati — ha detto il portavoce Win Myint — facevano promesse ai propri elettori fuori dalla piattaforma ufficiale». Dunque? «Non si possono fare promesse che poi non saranno mantenute». Benvenuta, Aung San Suu Kyi, nello scivoloso mondo della democrazia. E della responsabilità personale. Sconcerta, tuttavia, che il premio Nobel per la Pace, giustamente riverita nel mondo per il coraggio con cui ha affrontato gli anni della repressione e degli arresti, sia stata capace di inanellare una gaffe dietro l’altra dal giorno della sua liberazione, nel 2010. Prima le critiche sui suoi silenzi a proposito delle aggressioni ripetute e violente da parte della maggioranza buddhista contro la minoranza dei Rohingya, apolidi di fede islamica. Poi, e questa è storia recentissima, la sorpresa degli osservatori nello scoprire che, tra i 1.151 candidati dell’Nld per un posto di deputato, nemmeno uno sia musulmano, quando è stimato che tra il 4 e il 10% della popolazione birmana appartenga a questa fede. E adesso il silenzio imposto ai «riottosi» che si discostano dalla linea del partito (la sua). Qualcuno è arrivato a parlare di «dittatura» di Aung San Suu Kyi. Forse è solo scarsa dimestichezza con le regole della democrazia. Certo, ogni scivolone marca un punto nel campo degli (ex) generali: e questo non fa ben sperare per la Birmania.