ERRORI (POCHI) E SUCCESSI DELL’AMERICA DI OBAMA IN CAMPO INTERNAZIONALE
L’approccio del presidente in politica estera è caratterizzato da una genuina fiducia nel dialogo e nella diplomazia
Un primo bilancio della politica estera di Obama non può prescindere dall’eredità che il suo predecessore gli lasciò nel 2008: due guerre — in Afghanistan e in Iraq — ed una crisi economico-finanziaria globale, scatenata anche dal controverso fallimento della Lehman Brothers. L’America all’inizio del nuovo millennio era il Paese più potente dall’epoca romana ma il corso impresso da Bush dopo l’11 settembre fece saltare quei meccanismi automatici che, con presidenti democratici o repubblicani, avevano consentito lo spiegamento della potenza americana solo quando erano in gioco interessi vitali.
Il tentativo di Bush di forzare la Storia liberando il mondo dal Male aveva spaccato il Paese e polarizzato la politica estera. Obama avviò il ritiro dall’Iraq, sia pure nell’errato presupposto che i successi legati al surge del Generale Petraeus fossero sostenibili senza una forte presenza militare americana. Evitò poi un coinvolgimento massiccio nei vari teatri di crisi — Siria, Ucraina, Yemen — o in un potenziale scontro con l’Iran privilegiando altri strumenti: droni, sanzioni, negoziati. I suoi avversari lo hanno tacciato per questo di incompetenza, ingenuità, debolezza e persino autolesionismo ma in realtà il presidente non ha mai smarrito il senso della Grand Strategy operando solo un realistico riallineamento dei fini ai mezzi disponibili. Nel 2013 teorizzò una chiara distinzione fra obiettivi primari e obiettivi periferici degli Stati Uniti: «dovremo innanzitutto garantire i nostri interessi vitali anche con l’uso della forza; proteggere gli alleati dall’aggressione; smantellare le reti terroristiche che minacciano il nostro popolo; prevenire la proliferazione di armi di distruzione di massa». E mise in secondo piano altri obiettivi — prosperità, democrazia, diritti umani, pacificazione e stabilità regionale — precisando che per questi ultimi era irrealistico pensare ad interventi unilaterali americani. Fronteggiò la crisi ucraina con il ricorso alle sanzioni non certo all’intervento militare, ammettendo implicitamente che è in gioco un interesse vitale per la Russia ma solo marginale per gli Stati Uniti.
Abbiamo davanti agli occhi i disastri creati in Iraq dove gli americani intervennero e occuparono o in Libia dove intervennero senza occupare; eppure la storia dovrebbe insegnare che non si può rovesciare un regime senza un’alternativa credibile da imporre. Per alcuni la nascita dell’Isis è stata figlia anche del disimpegno in Iraq e del non intervento in Siria ma Obama si è convinto che lasciarsi trascinare lì anche con forze terrestri avrebbe comportato ulteriori disastri. Esemplare è in questo senso la questione del nucleare iraniano: l’amministrazione americana prese realisticamente atto che l’opposizione interna in Iran — anche se aiutata — non avrebbe potuto abbattere il regime; scommise sul nuovo presidente Rouhani e riaprì i canali negoziali coinvolgendo altri Stati e mettendo in gioco il capitale politico dello stesso Obama.
E infine l’Asia che, nella visione del presidente, è al centro degli interessi strategici americani sia politici che economici. L’ascesa della Cina, secondo le varie scuole di pensiero, ha creato opportunità, sfide e minacce in un continente nel quale gli Stati Uniti agiscono tradizionalmente da riequilibratore esterno ossia fornendo sicurezza a Paesi amici ed alleati al di fuori di un sistema di difesa collettivo com’è la Nato in Europa. I dividendi della gestione Obama comprendono il Trattato di Amicizia e Cooperazione con l’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico (Asean) e il Partenariato Transpacifico (Tpp). Permane l’incognita se la politica di incentivi e di dissuasione verso la Cina, perseguita dai due Bush, da Clinton e dallo stesso Obama, basti a precluderle derive di sovvertimento dell’ordine internazionale.
L’approccio di Obama alla politica estera è risultato talvolta retoricamente ecumenico ma sempre inclusivo e multilaterale con una genuina fiducia nelle virtù del dialogo e della diplomazia. Resta paradigmatico il nuovo corso avviato con l’Iran e con Cuba. Ma restano altrettanto innegabili taluni errori di improvvisazione come la minaccia di un improbabile intervento in Siria se Assad avesse usato armi chimiche (e le usò) o alcune valutazioni poco realistiche sul ritiro delle forze Usa dall’Iraq. Il disimpegno sta mettendo l’Iraq di fronte a un serio rischio di disintegrazione, errore che si cerca ora di evitare in Afghanistan.
Alla sfera declamatoria vanno ascritte certe iniziali perorazioni per un drastico disarmo nucleare. Ma è indubbio che l’esposizione (e l’immagine) globale degli Usa verso l’esterno siano nettamente migliorate. Peraltro, un saggio riequilibrio fra gli impegni e le capacità appariva ormai ineludibile in un’epoca in cui — come dimostrano Iraq e Afghanistan — neanche lo strapotere dell’unica Superpotenza militare è in grado di farle vincere una guerra moderna. Appaiono pertanto spropositate certe affermazioni elettoralistiche che vedrebbero gli Stati Uniti in pieno declino e ne riversano la colpa su Obama. Il presidente, come ogni buon giocatore di basket, è un «team player» e ama giocare insieme alla squadra alleata, pur mantenendo sempre il ruolo di capitano.
Svolte Resta esemplare il nuovo corso avviato con l’Iran, dove sono stati riaperti i canali negoziali coinvolgendo altri Stati, e con Cuba