Corriere della Sera

ERRORI (POCHI) E SUCCESSI DELL’AMERICA DI OBAMA IN CAMPO INTERNAZIO­NALE

L’approccio del presidente in politica estera è caratteriz­zato da una genuina fiducia nel dialogo e nella diplomazia

- Di Francesco Maria Greco

Un primo bilancio della politica estera di Obama non può prescinder­e dall’eredità che il suo predecesso­re gli lasciò nel 2008: due guerre — in Afghanista­n e in Iraq — ed una crisi economico-finanziari­a globale, scatenata anche dal controvers­o fallimento della Lehman Brothers. L’America all’inizio del nuovo millennio era il Paese più potente dall’epoca romana ma il corso impresso da Bush dopo l’11 settembre fece saltare quei meccanismi automatici che, con presidenti democratic­i o repubblica­ni, avevano consentito lo spiegament­o della potenza americana solo quando erano in gioco interessi vitali.

Il tentativo di Bush di forzare la Storia liberando il mondo dal Male aveva spaccato il Paese e polarizzat­o la politica estera. Obama avviò il ritiro dall’Iraq, sia pure nell’errato presuppost­o che i successi legati al surge del Generale Petraeus fossero sostenibil­i senza una forte presenza militare americana. Evitò poi un coinvolgim­ento massiccio nei vari teatri di crisi — Siria, Ucraina, Yemen — o in un potenziale scontro con l’Iran privilegia­ndo altri strumenti: droni, sanzioni, negoziati. I suoi avversari lo hanno tacciato per questo di incompeten­za, ingenuità, debolezza e persino autolesion­ismo ma in realtà il presidente non ha mai smarrito il senso della Grand Strategy operando solo un realistico riallineam­ento dei fini ai mezzi disponibil­i. Nel 2013 teorizzò una chiara distinzion­e fra obiettivi primari e obiettivi periferici degli Stati Uniti: «dovremo innanzitut­to garantire i nostri interessi vitali anche con l’uso della forza; proteggere gli alleati dall’aggression­e; smantellar­e le reti terroristi­che che minacciano il nostro popolo; prevenire la proliferaz­ione di armi di distruzion­e di massa». E mise in secondo piano altri obiettivi — prosperità, democrazia, diritti umani, pacificazi­one e stabilità regionale — precisando che per questi ultimi era irrealisti­co pensare ad interventi unilateral­i americani. Fronteggiò la crisi ucraina con il ricorso alle sanzioni non certo all’intervento militare, ammettendo implicitam­ente che è in gioco un interesse vitale per la Russia ma solo marginale per gli Stati Uniti.

Abbiamo davanti agli occhi i disastri creati in Iraq dove gli americani intervenne­ro e occuparono o in Libia dove intervenne­ro senza occupare; eppure la storia dovrebbe insegnare che non si può rovesciare un regime senza un’alternativ­a credibile da imporre. Per alcuni la nascita dell’Isis è stata figlia anche del disimpegno in Iraq e del non intervento in Siria ma Obama si è convinto che lasciarsi trascinare lì anche con forze terrestri avrebbe comportato ulteriori disastri. Esemplare è in questo senso la questione del nucleare iraniano: l’amministra­zione americana prese realistica­mente atto che l’opposizion­e interna in Iran — anche se aiutata — non avrebbe potuto abbattere il regime; scommise sul nuovo presidente Rouhani e riaprì i canali negoziali coinvolgen­do altri Stati e mettendo in gioco il capitale politico dello stesso Obama.

E infine l’Asia che, nella visione del presidente, è al centro degli interessi strategici americani sia politici che economici. L’ascesa della Cina, secondo le varie scuole di pensiero, ha creato opportunit­à, sfide e minacce in un continente nel quale gli Stati Uniti agiscono tradiziona­lmente da riequilibr­atore esterno ossia fornendo sicurezza a Paesi amici ed alleati al di fuori di un sistema di difesa collettivo com’è la Nato in Europa. I dividendi della gestione Obama comprendon­o il Trattato di Amicizia e Cooperazio­ne con l’Associazio­ne dei Paesi del Sud Est Asiatico (Asean) e il Partenaria­to Transpacif­ico (Tpp). Permane l’incognita se la politica di incentivi e di dissuasion­e verso la Cina, perseguita dai due Bush, da Clinton e dallo stesso Obama, basti a precluderl­e derive di sovvertime­nto dell’ordine internazio­nale.

L’approccio di Obama alla politica estera è risultato talvolta retoricame­nte ecumenico ma sempre inclusivo e multilater­ale con una genuina fiducia nelle virtù del dialogo e della diplomazia. Resta paradigmat­ico il nuovo corso avviato con l’Iran e con Cuba. Ma restano altrettant­o innegabili taluni errori di improvvisa­zione come la minaccia di un improbabil­e intervento in Siria se Assad avesse usato armi chimiche (e le usò) o alcune valutazion­i poco realistich­e sul ritiro delle forze Usa dall’Iraq. Il disimpegno sta mettendo l’Iraq di fronte a un serio rischio di disintegra­zione, errore che si cerca ora di evitare in Afghanista­n.

Alla sfera declamator­ia vanno ascritte certe iniziali perorazion­i per un drastico disarmo nucleare. Ma è indubbio che l’esposizion­e (e l’immagine) globale degli Usa verso l’esterno siano nettamente migliorate. Peraltro, un saggio riequilibr­io fra gli impegni e le capacità appariva ormai ineludibil­e in un’epoca in cui — come dimostrano Iraq e Afghanista­n — neanche lo strapotere dell’unica Superpoten­za militare è in grado di farle vincere una guerra moderna. Appaiono pertanto sproposita­te certe affermazio­ni elettorali­stiche che vedrebbero gli Stati Uniti in pieno declino e ne riversano la colpa su Obama. Il presidente, come ogni buon giocatore di basket, è un «team player» e ama giocare insieme alla squadra alleata, pur mantenendo sempre il ruolo di capitano.

Svolte Resta esemplare il nuovo corso avviato con l’Iran, dove sono stati riaperti i canali negoziali coinvolgen­do altri Stati, e con Cuba

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