Oscar Wilde espressionista con i giovani attori di Latella
In astratto, o nella memoria, o perché ritenevo d’aver una volta scritto che L’importanza di essere Earnest è la più bella commedia del XIX secolo, ho cominciato di nuovo a leggerla con entusiasmo. Massima fu la delusione. La più bella? Per niente. Invero stucchevole, esibizionista, d’uno stantio dandismo. Ecco, mi dicevo andando a Solomeo: così la ritenevo perché volevo essere dandy anche io, un poco.
Allo spettacolo diretto da Antonio Latella in scena per lo stabile dell’Umbria si va perché c’è Oscar Wilde e perché da Latella si va… Questo Latella non potrebbe fermarsi un momento? E i produttori di spettacoli non potrebbero scoprire un nuovo regista? Anche per i primi cinque minuti ho continuato a nutrire pensieri simili.
Ma i «cattivi pensieri», come li chiamava il mio maestro nell’arte di vedere spettacoli Sandro De Feo, di colpo finirono. Si infransero contro la barriera di quelle grandi finestre chiuse da colonne ai lati e poste su un liscio muro da villa in un (poi rigoglioso) giardino. I cattivi pensieri — tutti furono polverizzati dall’argine posto dal regista: che gli attori ce li faceva vedere prima in ombra, dietro le tende; poi in pigiama o seminudi dal busto in su; infine per intero, avendo gli attori scavalcato ogni barriera con una certa arroganza (quella, giusta, del loro elevato stato sociale e, aggiungo, artistico).
Ma no, che avevo letto io poche ore prima? Ciò che stavo ascoltando erano le stesse parole ed era tutto diverso. Era astratto fino all’incredibile, e proprio per questo vero. Il succo della commedia di Wilde (la sua genialità a prescindere), contenuto già nel titolo, è nella rivelazione del distacco tra la parola e la cosa, o la persona, o l’azione. I personaggi, i loro intrighi, le loro bugie, i loro amori leggeri o niente affatto leggeri, acquistavano plasticità, verità. Lo stile dell’interpretazione, così riccamente modulato, potrei definirlo espressionista — fino a Bacon. Ma sarebbe insufficiente. Ciò che viene in mente, per capirci, è qualcosa a metà tra Blake Edwards e Wes Anderson ai lati e Terry Gilliam al centro. Siamo nel regno della semi-follia, o della follia pura: là dove ci spinge l’eccesso di libertà, quella speciale mancanza di vincoli che offre il non problema della sopravvivenza, del denaro. Nello spettacolo di Latella vi sono alcuni dei suoi intellettualismi: riflettori da studio cinematografico (ma forse voleva dirci che questo è tutto cinema) o gesti come la scarpa messa in bocca da un uomo a una donna (che forse significava ben altro) o il maggiordomo accucciato al buio, con un faretto in testa a fare da relatore, ma poi da spia, così entrando nella vita dell’autore (Wilde) come giudice della sua omosessualità — forse l’unico vero squilibrio di uno spettacolo pieno di attori poco conosciuti. Giovani? Sì, giovani.
Ma benedetta la gioventù. Non ce n’è uno che non sia ammirevole, incantevole — specie nella vitalità e leggerezza con cui ci rivelano il segreto, che Latella chiama il non detto: quando si baciano i due maschi che corteggiano le femmine, e poi tutti con tutti.
Non esistono né i generi né le identità. Wilde era tornato ciò che è, entusiasmante.