Corriere della Sera

LA TURCHIA NELLA UE IMPROBABIL­E PER ORA

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Anni fa, nei suoi commenti sulla Turchia, lei era sicurament­e favorevole ad un ingresso della stessa in Europa. Alla luce degli eventi successivi — guerra in Siria, offensiva dell’estremismo islamico sunnita verso il quale la Turchia ha un atteggiame­nto più che ambiguo, ripresa del conflitto con la componente curda — lei ha cambiato idea? Marco Garaventa marco.garaventa@gmail.com

Caro Garaventa,

È la Turchia che è cambiata. Sino alla fine del primo decennio di questo secolo era lecito pensare che l’ingresso nell’Unione europea fosse uno scopo prioritari­o della politica estera turca. L’obiettivo era in sintonia con le scelte laiche e modernizza­trici che Kemal Atatürk aveva fatto per il Paese sin dagli anni Venti del secolo scorso. Rispondeva agli interessi della comunità degli affari, ma anche di quella borghesia anatolica, laboriosa e intraprend­ente, che si era progressiv­amente affermata negli anni precedenti. Questa nuova classe media è un ceto sociale tradiziona­lmente devoto che vota per l’Akp, il partito islamico «Giustizia e Sviluppo» di Recep Tayyip Erdogan; ma non sembra essere stato contagiato dai movimenti jihadisti e dimostra che l’Islam non è incompatib­ile con il progresso e la modernità.

Negli anni in cui l’adesione sembrava possibile, il governo turco aveva una politica estera regionale che non coincideva sempre con quella dei membri dell’Unione europea. Ma le divergenze, quando esistevano, erano comprensib­ili e tollerabil­i. Non potevamo non essere d’accordo, in particolar­e, con la proclamata intenzione turca di avere buoni rapporti, per quanto possibile, con tutti i suoi vicini.

Il quadro è cambiato dall’inizio delle rivolte arabe. Quando scoppiaron­o in Siria, al confine con la Turchia, Erdogan si adoperò per convincere il presidente siriano a fare alcune concession­i. Ma non appena Bashar Al Assad dimostrò di non desiderare una politica riformatri­ce, Erdogan adottò nei suoi confronti una linea dura e non esitò a sostenere i ribelli. A dispetto della sua laicità, la Siria covava da molto tempo alcune potenziali fratture religiose. Gli Assad sono laici, ma hanno governato grazie all’appoggio degli alauiti (una branca della famiglia sciita, grosso modo il 20% della popolazion­e) e dei cristiani (circa 10%); mentre la maggioranz­a della popolazion­e (65%) è sunnita. Se all’inizio, nelle prime manifestaz­ioni contro il regime siriano, sembravano prevalere motivazion­i politiche e sociali, la rivolta si è trasformat­a col tempo in una guerra di religione fra sunniti e sciiti: una situazione non diversa da quella del Libano negli anni della guerra civile e da quelle più recenti dell’Iraq, del Bahrein, dello Yemen e di altri Paesi arabo-musulmani. Come sempre, quando la religione sostituisc­e la politica, anche il campo di battaglia siriano ha assistito all’arrivo di gruppi sempre più intransige­nti, dalla Fratellanz­a musulmana ai fanatici di Al Qaeda e dell’Isis (Stato Islamico dell’ Iraq e della Siria). Oggi, trascinata dalla logica del conflitto, la Turchia è obiettivam­ente alleata di gruppi che le democrazie occidental­i consideran­o una minaccia per la loro sicurezza. Lo constatiam­o, nella vicenda siriana, quando la Turchia ricorre alle armi per colpire le formazioni curde, ma chiude un occhio di fronte alla efferatezz­a dell’Isis. Parlare dell’adesione turca all’Unione europea, in queste circostanz­e, mi sembra un inutile esercizio accademico.

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