Corriere della Sera

UNA SCELTA DIFFICILE E OBBLIGATA

- Di Massimo Gaggi

«Ma cosa vuol dire? Che adesso siamo schiavi dell’economia cinese?» si chiede, sconsolato, un trader. Aveva scommesso che la Federal Reserve sarebbe tornata, nel «conclave» di ieri, ad aumentare per la prima volta i tassi congelati a quota zero fin dalla crisi finanziari­a dell’autunno 2008. La stessa Banca centrale aveva creato aspettativ­e in questo senso all’inizio dell’estate, ma le turbolenze di agosto, la crisi cinese, i crolli asiatici e il nervosismo planetario dei mercati, hanno rapidament­e modificato lo scenario.

Eppure l’economia Usa rimane solida e, nonostante il rafforzame­nto del dollaro che incide negativame­nte sulle esportazio­ni, l’America è relativame­nte isolata dalle turbolenze internazio­nali, grazie al suo dinamismo interno. Per questo molti pensavano che, nonostante le nuove difficoltà, Janet Yellen avrebbe tenuto ferma la barra sulle decisioni strategich­e prese nei mesi scorsi.

Non è stato così: in un incontro con la stampa la presidente della Fed ha cercato di minimizzar­e il significat­o di questo ulteriore rinvio del primo passo verso il ritorno alla normalità nei mercati finanziari dopo sette anni di gestione emergenzia­le delle economie. Ed è ancora possibile che in una delle due prossime riunioni (ottobre e dicembre) del Fomc, il comitato esecutivo della Banca centrale, venga dato il piccolo segnale di un aumento dei tassi dello 0,25 per cento.

Ma dalle decisioni prese ieri dalla maggiore istituzion­e monetaria mondiale emergono almeno tre elementi preoccupan­ti: 1) L’economia internazio­nale rimane in condizioni di estrema fragilità. La crisi cinese è gestibile, ma non abbiamo ancora visto il peggio, mentre vi saranno conseguenz­e negative di lungo periodo anche per il rallentame­nto delle economie emergenti come quella brasiliana. Il dinamismo interno dell’America può compensare questo impatto negativo ma non completame­nte (mentre l’Europa è più vulnerabil­e degli Usa). 2) L’allarme vero adesso si sposta sull’inflazione. Se nell’analisi della Fed i guai estivi sono destinati a rallentare la crescita, col Pil americano che anche nei prossimi due anni non crescerà più del 2,2-2,3%, il vero problema viene dalla dinamica dei prezzi. Rispetto all’obiettivo Fed (+2%) stiamo sfiorando la linea della deflazione. Per quest’anno (segnato anche dall’effetto del forte calo del petrolio), la previsione di un’inflazione allo 0,7% è stata ora rivista e portata allo 0,4. I banchieri centrali ritengono che non torneremo in vista del traguardo del 2% prima del 2018 (1,7 l’anno prossimo e 1,9 quello successivo). Da qui la decisione di muoversi con ancora più prudenza. 3) In questo cambio di traiettori­a la Fed si è divisa. L’unanimità che la Yellen era riuscita a recuperare nella prima parte dell’anno, è saltata. Si era capito già ad agosto quando, davanti alla crisi cinese, il capo della Fed di New York aveva caldeggiat­o il rinvio dell’intervento sul costo del denaro, mentre il vice della Yellen, Stanley Fischer, aveva giudicato dannoso uno slittament­o. Ieri quattro dei 17 governator­i della Fed hanno detto che i tassi non devono salire prima del 201617, mentre 12 hanno continuato a considerar­e opportuno un piccolo intervento alla fine di quest’anno e uno ha votato per un aumento immediato.

In passato la Yellen ha invitato più volte i mercati e i «media» a non sovrastima­re il momento in cui i tassi verranno alzati per la prima volta, e a guardare di più ai processi di lungo periodo. Qualcuno sostiene che ieri ci sarebbero state le condizioni per un ritocco del costo del denaro: la Fed avrebbe rinunciato per il timore che, in una situazione di grande nervosismo dei mercati con voci ricorrenti di bolle speculativ­e pronte a scoppiare qua e là, anche un intervento minimo potesse diventare il detonatore di crolli delle Borse.

Passando dalle ipotesi ai fatti: fino a ieri la prospettiv­a era quella di aumenti graduali dei tassi con la Fed che, non potendo fermarsi al primo gradino dello 0,25%, sarebbe arrivata, mese dopo mese, ad aumentare il costo del denaro di un punto o un punto e mezzo percentual­e da qui alla metà del prossimo anno. Il nuovo quadro di bassissima inflazione è corredato da uno scenario tracciato dai banchieri centrali che prevede una crescita molto più lenta del costo del denaro anche nel medio-lungo periodo: non più del 2,6% a fine 2017 (l’ipotesi precedente era del 2,9), mentre ora l’attesa è che anche i tassi a lungo termine non vadano oltre il 3,5%.

Denaro quasi gratis ancora per molto tempo: è tutto quello che le Banche centrali possono fare per cercare di aiutare una ripresa dell’attività produttiva che, però, sembra dipendere sempre meno dalla disponibil­ità di credito a buon mercato. Mentre la vera ombra che spaventa (per i salari troppo bassi e anche la mini-inflazione) è l’eccesso di capacità produttiva inutilizza­ta, ovunque in giro per il mondo.

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