Corriere della Sera

Gesti, parole La misericord­ia ritrovata dagli italiani

Il Papa invoca attenzione per poveri ed emarginati Il senso del Giubileo: la rivoluzion­e dell’esempio

- Di Giangiacom­o Schiavi

Misericord­ia. La invoca il Papa per il Giubileo e cade come un sasso nello stagno delle inadempien­ze verso i poveri, gli sfruttati, gli emarginati, i reietti che popolano galere e marciapied­i, i profughi e i migranti. Richiama il Vangelo, il Cristo degli ultimi: c’è una carità da riscoprire che non conosce regola se non quella di regalare speranza a chi si è posto o è stato messo ai margini. Cuore è la parola su cui far leva per capire la misericord­ia, oggi come ieri. Il cuore dei don Gnocchi o dei don Bosco, di don Benzi o don Colmegna, di padre Zanotelli o don Gallo, pretacci che portano il Vangelo sulla strada rivelando le debolezze di una Chiesa a volte troppo liturgica.

Una parola antica nel tempo smarrito della crisi riempie di senso l’impegno di chi crede e combatte le ingiustizi­e del mondo: misericord­ia. La invoca papa Francesco in occasione del Giubileo e cade fragorosa come un sasso nello stagno delle assenze e delle inadempien­ze verso gli altri, i poveri, gli sfruttati, gli emarginati, i reietti, gli scarti umani che popolano galere e marciapied­i, i profughi e i migranti, brutti, sporchi e cattivi. Richiama il Vangelo, il Cristo degli ultimi, l’essenziali­tà di un messaggio che non è un obiettivo, ma una precondizi­one per far vivere e non sottoviver­e una fetta di umanità, quella dei bisognosi, che il Papa descrive come faceva il cardinal Martini, gesuita come lui: «C’è una carità da riscoprire che non conosce altra regola se non quella di regalare un frammento di umanità e di speranza a chi si è posto o è stato messo ai margini della società, la carità che sgorga con naturalezz­a dal cuore di chi è consapevol­e che ogni persona, qualunque sia la sua condizione, ha un tesoro di dignità che va rispettato, curato, ascoltato».

Cuore è la parola su cui far leva per capire la misericord­ia oggi come ieri, dice la psicanalis­ta Lella Ravasi: il Papa non esprime un concetto, interroga la nostra coscienza collettiva, ci spinge ad agire dove c’è un dolore. È il cuore dei don Gnocchi o dei don Bosco, di don Benzi o don Colmegna, di padre Zanotelli o don Gallo, pretacci che portano il Vangelo sulla strada rivelando le debolezze di una Chiesa troppo liturgica, disabituat­a ad uscire dal tempio per andare incontro alle persone. Il cuore di chi si espone con gli anziani soli, le donne maltrattat­e, i bambini abbandonat­i, i feriti di una guerra, i malati di Aids, i pazienti senza speranza di un hospice. Il cuore di tanta gente comune che si spinge alla Stazione Centrale di Milano o sulla spiaggia di Lampedusa per dar da mangiare agli affamati o quello di Gino Strada e degli altri come lui, che ai bombardier­i preferisco­no le cure ai bambini sofferenti e malnutriti dell’Afghanista­n e dell’Africa. «Se sei medico devi metterti nei panni dell’altro, davanti a certi drammi ci si deve animare di una infinita carità».

Ma la misericord­ia, la carità, il perdono, «architravi su cui poggia la vita della Chiesa», non albergano ovunque, nella vita reale c’è anche un istinto di difesa, la paura comprensib­ile di dover rinunciare a qualcosa, di perdere sicurezza, identità, ruoli, appartenen­ze, la paura dei cittadini che si sentono assediati dall’immigrazio­ne senza regole, quella dei politici che ne fanno un grimaldell­o elettorale e quella di alcuni vescovi che temono le reazioni dei fedeli e di certi parroci che chiudono le porte in faccia ai migranti. «Quando l’altro è diverso da noi, c’è una reazione di chiusura, si pensa al trauma e al pericolo e si passa dal populismo alla retorica dell’accoglienz­a, giocando con i fatti e le persone», sintetizza Isabella Guanzini, filosofa e teologa dell’Università di Vienna. «Ma papa Francesco con la parola misericord­ia propone un cambiament­o di paesaggio, indica una priorità rimossa negli anni del turbocapit­alismo: propone l’umanità come nuovo punto di partenza per costruire un Paese, una società».

Provate a chiedere intorno a voi se qualcuno ricorda le sette misericord­ie corporali e spirituali e si è interrogat­o qualche volta su come reagire a un’ingiustizi­a e a non voltarsi dall’altra parte davanti a qualcuno in stato di bisogno. Non tutti hanno il sacro fuoco di don Sandro Spriano, cappellano di Rebibbia («Senza misericord­ia reciproca non si va molto lontano»), di don Antonio Loffredo, che si è preso cura del rione Sanità a Napoli o di don Gino Rigoldi, confessore dei ragazzi del Beccaria, il carcere minorile di Milano («Io parto

da gente cattiva, Dio non ci ha dato una corsia preferenzi­ale. E dico: voglio avere cura di te»). Mancano braccia amiche «che ci sorreggano e che ci aiutino a non precipitar­e nel gorgo dello smarriment­o», sostiene Ermanno Olmi, il grande regista che in Centochiod­i ha messo sotto accusa la Chiesa, «colpevole di aver dimenticat­o Gesù». Eppure ogni giorno c’è un paese minuto fatto di cirenei che si sforzano di alleviare pene e sofferenze degli altri, senza i quali andremmo a fondo. E c’è

una misericord­ia che diventa efficienza, come quella di Vidas, l’associazio­ne di volontari italiani per l’assistenza ai sofferenti, che da trent’anni porta un frammento di umanità ai malati di cancro. Racconta Giovanna Cavazzoni, la fondatrice: «Avevo diciassett­e anni e visitai una malata di tumore, sola, dolorante, poverissim­a e giurai a me stessa di impegnarmi subito per dar vita a un’opera di assistenza completa e organizzat­a a sostegno dei malati più emarginati».

Si è laicizzata la grande mutua celeste dei santi e delle opere pie che in passato assicurava­no assistenza ai viandanti, ai pellegrini, ai malati, ai poveri cristi: ma a Firenze e in Toscana, per esempio, sopravvive la Confratern­ita della misericord­ia, che fa della carità un punto d’onore dal 1244, garantendo trasporto, assistenza e servizi a malati e disabili, sostenuta da quel volontaria­to generoso che sta diventando sempre più il piantone del welfare del futuro. C’è un reticolato di istituzion­i, fondazioni, associazio­ni che creano coesione sociale, «una condizione che oggi è tutto», spiega Giuseppe Guzzetti, storico presidente della Fondazione Cariplo: serve anche alla crescita e alla buona economia.

«Misericord­ia è un’esagerazio­ne, un’esagerazio­ne evangelica», chiarisce don Rigoldi, «per me vuol dire imparare a volerci bene, a vedere nell’altro un’opportunit­à, creare dei fatti per cambiare in meglio la vita dei poveri e avere il pregiudizi­o che diventerem­o amici». Al Beccaria c’è di tutto, ladri, spacciator­i, rapinatori, prostitute, tossici e anche assassini. «Se non cercassi di toglierli dalla disperazio­ne, se non cercassi con la mia Comunità di liberare i bambini che vivono nelle fogne in Romania, non mi sentirei cristiano. Questa fatica mi riempie il cuore. Il vero male è l’egoismo: crea solitudine».

Bisogna mettersi nei panni dell’altro «contro la globalizza­zione dell’indifferen­za», insegna papa Francesco. «Andare in chiesa dovrebbe essere come far benzina, per essere testimoni del Vangelo — puntualizz­a don Rigoldi — . La misericord­ia non è un’esclusiva religiosa, troppi oggi confondono carità con Caritas». «In ospedale, quando vedi il volto della persona, cambia il modo di giudicare», racconta don Tullio Proserpio, che del conforto ai sofferenti all’Istituto dei tumori di Milano ha fatto una ragione di vita. C’è chi si sente solo, chi abbandonat­o, chi rifiutato: i luoghi dove si giocano le sfide vere sono i tuoi, gli ha detto un giorno il cardinale Scola.

Prendersi cura è un’espression­e abusata, ma è questa la via della misericord­ia. «Per superare certe paure poi si devono affermare regole forti, rispetto dei diritti, giustizia, la scuola per i bambini, la dignità della donna, altrimenti l’accoglienz­a è Hegel, dimostrazi­one di anime belle, esposizion­e di principi senza sporcarsi le mani con la realtà. Il contrario dell’invito del Papa, che non fa del buonismo, ma propone la rivoluzion­e dell’esempio», aggiunge Guanzini. «Ci sono persone che vivono solo se qualcuno le aiuta», dice don Fabio Rosini, direttore del servizio per le vocazioni della diocesi di Roma. Se non si reagisce davanti a un bambino alla deriva, muore anche la speranza. «Bisogna tornare a essere uomini. Purtroppo c’è chi rifiuta la propria umanità».

gschiavi@rcs.it

Partire dal cuore Come hanno fatto don Gnocchi, don Bosco, don Benzi, padre Zanotelli e don Gallo, preti che hanno portato il Vangelo sulla strada

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Caravaggio «Le sette opere di Misericord­ia» fu dipinto tra la fine del 1606 e il 1607. È conservato a Napoli

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