Corriere della Sera

Le sette bugie da smascherar­e

Dall’elettività al ruolo del presidente del Senato quali sono i «pregiudizi» che minano il dibattito sulle nuove norme

- Di Michele Ainis

Che cos’è una bugia? È solo la verità in maschera, diceva lord Byron. Difatti al Carnevale delle riforme la verità si maschera, s’occulta, si traveste.

La verità genera falsi d’autore e quei falsi diventano poi luoghi comuni, accettati da entrambi i contendent­i. L’ultima balla è anche l’unica credibile: se v’impuntate sull’elettività dei senatori potremmo sbarazzarc­i del Senato, dichiara la ministra Boschi. Perché no? Dopotutto il monocamera­lismo funziona in 39 Stati al mondo. E dopotutto meglio nessun Senato che un Senato figlio di nessuno. Ma per ragionare a mente fredda dovremmo intanto liberarci dalle bugie che ci raccontano. Ne girano almeno sette, come i peccati capitali.

Revisioni costituzio­nali

Primo: in Italia si tentano riforme costituzio­nali da trent’anni, senza cavare mai un ragno dal buco. Questa è l’ultima spiaggia. Falso: dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzio­nale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5. Se il sistema, nonostante le medicine, non guarisce, significa che la cura era sbagliata. Dunque le cattive riforme procurano più danni del vuoto di riforme.

Il ruolo delle Camere

Secondo: Vade retro gubernatio. La Costituzio­ne è materia parlamenta­re, non governativ­a. Sicché l’esecutivo deve togliersi di mezzo, abbandonan­do la pretesa di dirigere l’orchestra. È l’argomento sollevato dalle opposizion­i, così come l’argomento precedente risuona in bocca alla maggioranz­a. Ma è falso pure questo. O meglio: sarà esatto nel paradiso dei principi, non nell’inferno della storia. Nel 2001 la riforma del Titolo V venne accudita dal governo Amato. Nel 2005 la Devolution era stata scritta di suo pugno dal ministro Bossi. Nel 2012 l’obbligo del pareggio di bilancio fu imposto dal governo Monti. Ma già nel 1988 il gabinetto De Mita si era presentato agli italiani come «governo costituent­e».

L’iter delle leggi

Terzo: la riforma è indispensa­bile per accelerare l’iter legis. Giacché in Italia il processo legislativ­o ha tempi biblici, che dipendono dal ping pong fra Camera e Senato. I dati, tuttavia, dimostrano il contrario. Il tempo medio d’approvazio­ne dei disegni di legge governativ­i era 271 giorni nella XIII legislatur­a (1999-2001); in questa legislatur­a è sceso a 109 giorni. Mentre nel quinquenni­o precedente (2008-2013) il Parlamento ha licenziato la bellezza di 391 leggi. No, non è una legge in più che può salvarci l’anima. Semmai una legge in meno, e anche una fiducia in meno. È la doppia fiducia,

non il doppio voto sulle leggi, che ha reso traballant­i i nostri esecutivi.

L’elezione diretta

Quarto: l’elettività dei senatori. Serve per assicurare un contrappes­o al sovrappeso della Camera, dice la minoranza del Pd. Falso. Come ha osservato Cesare Pinelli, l’elezione diretta determina l’una o l’altra conseguenz­a: un’assemblea con gli stessi equilibri politici della Camera, ovvero con equilibri opposti. Nel primo caso il Senato è inutile; nel secondo è dannoso. Del resto l’elezione popolare non c’è in Francia, né in Germania, né in varie altre contrade. Non c’è nemmeno in Inghilterr­a, tanto che il governo (nel 2012) aveva pensato d’introdurla. Ma i Lord inglesi si sono ribellati all’elettività, come i senatori italiani si ribellano alla non elettività.

Gli emendament­i

Quinto: dipenderà da Grasso, il signore degli emendament­i. Se apre il vaso di Pandora dell’articolo 2, se rimette in discussion­e i criteri di composizio­ne del Senato, la riforma s’impantana. Ma non può farlo, perché in Commis-

Precedenti Nel 2005 Pera recuperò in Aula 4 emendament­i prima dichiarati inammissib­ili

sione la Finocchiar­o li ha già dichiarati inammissib­ili. Giusto? No, sbagliato. In primo luogo c’è almeno un precedente: nel marzo 2005 quattro emendament­i (firmati da Bassanini, Zanda e altri) vennero recuperati in Aula dal presidente Pera. In secondo luogo non è Grasso che vota, lui mette ai voti. E la maggioranz­a o c’è o non c’è: se manca sull’articolo 2, mancherà pure sugli altri articoli

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