LE MINACCE ESAGERATE DEL MINISTRO GIANNINI
Il ministro Giannini minaccia di adire le vie legali contro chi spaccia la «truffa culturale» secondo cui le scuole saranno costrette a sottomettersi al nuovo verbo gender. Ha ragione ad arrabbiarsi, semplicemente perché nel testo del governo non c’è quello che gli «anti-gender» dicono ci sia. Ha torto ad annunciare querele. Quale sarebbe il reato, poi, forse «diffusione di notizie false e tendenziose»? Oppure «sabotaggio» dell’opera del governo, «vilipendio» dell’istituzione ministeriale? La propaganda anti-Giannini altera i dati, fornisce un’informazione sbagliata? Bene, anzi male: il ministro può replicare duramente, contestare aspramente gli avvelenatori di pozzi. Ma da quando si deve chiedere a un giudice di dare il suo verdetto su una disputa politica? Ci lamentiamo sempre perché la magistratura svolge una missione di supplenza rispetto alle manchevolezze della politica, e adesso affidiamo alla magistratura il compito di dirimere una discussione? Il ministro Giannini potrebbe replicare: ma qui si manipolano i dati, si dice che il governo vuole fare cose che non si sogna di fare. Ecco, dia addosso ai manipolatori, dica all’opinione pubblica come siano faziosi e a corto di argomenti i suoi detrattori. Ma non si può portare davanti a un giudice l’interpretazione che qualcuno vuole dare a una direttiva del governo. In politica, la verità purtroppo è un concetto molto fragile. Per dire, all’inizio di settembre, annunciando i provvedimenti per i «mille giorni» del suo governo, il premier Renzi disse, presente lo stesso ministro Giannini, che in quei mille giorni sarebbero stati inaugurati mille asili nido. Sono passati 365 giorni e non risultano 365 nuovi asili nido in Italia. Vogliamo denunciare il premier per «false promesse»? Sarebbe ridicolo. Perciò il ministro denunci pure la «truffa culturale». Ma all’opinione pubblica, non in tribunale. Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it n un suo articolo di pochi giorni fa (Corriere della Sera, 12 settembre), il presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca ha bene descritto la ricchezza dell’area della Grande Milano al cui centro, con un raggio di soli sessanta chilometri, si trova Expo.
Ricchezza di popolazione (8,5 milioni di persone), di produzione (un quarto del valore aggiunto dell’industria italiana), di proiezione internazionale (esportazioni pari al 40 per cento del prodotto interno generato se estendiamo l’area considerata all’intera Lombardia), di collegamenti (aeroporti, autostrade, metropolitana, treni regionali, nazionali e ad alta velocità), di infrastrutture tecnologiche (oltre 200 chilometri di fibre sul solo sito di Expo), di luoghi del sapere (otto università, 180 mila studenti, 285 centri di ricerca). Un insieme che vale come un pezzo di Germania, come un pezzo dell’Europa più prospera e produttiva.
Ce n’è abbastanza per dire che qui si gioca una partita decisiva