L’ESITANTE FERMEZZA DI PAOLO VI
Quando il 4 ottobre 1965 Paolo VI varca la soglia del Palazzo di Vetro a New York, sa di compiere un atto senza precedenti e senza repliche. La presenza in organismi internazionali, prima dell’enciclica Pacem in terris, s’era limitata per qualità diplomatica e teologica. Mai più dopo Montini un Papa andrà all’Onu come voce d’un Concilio, simboleggiato dal seguito pontificio di cardinali che rappresentavano in modo adeguato la cattolicità della comunione.
Prepara un discorso memorabile con meticolosità, a partire da una prima stesura manoscritta che Andrea Riccardi pubblica in anastatica (senza mai dichiararne la provenienza archivistica che l’ha resa «copia presso l’autore») e commenta insieme alle versioni limate da mani non sempre identificate, senza alterare l’impianto iniziale. Nel volume Manifesto al mondo. Paolo VI all’Onu, in uscita il 24 settembre per Jaca Book (pagine 128, 12), Riccardi ripercorre così l’esitante fermezza di un Papa che esibisce lucidamente una Chiesa «in cerca di incontri», contro i pareri di chi vorrebbe vederlo enunciare principi e rivendicazioni politiche. Paolo VI al contrario vuole andare all’Onu per dar forza a una struttura che nel 1961, in un «incidente» aereo, aveva perso Dag Hammarskjöld, il segretario generale dal cui diario (Tracce di cammino, a cura di Guido Dotti, Qiqajon, 2006) emergerà uno spessore spirituale luminoso come la vetrata che Marc Chagall gli dedica nel 1964; e che dopo l’assassinio di John Kennedy sembrava ancor più impotente di oggi. Paolo VI ci riesce, grazie al suo discorso ascoltato per la prima volta in diretta al Concilio, con effetti studiati da Federico Ruozzi nel suo Il Concilio in diretta (Il Mulino, 2012). Ma il Papa riesce anche in tre altri obiettivi. Riporta infatti la Santa Sede al centro del dibattito, auspicando, d’intesa con U Thant, il ritorno della Cina nel consesso internazionale (tema questo che mutatis mutandis riguarda anche la imminente visita di papa Francesco e la possibilità di un contatto diretto con le autorità di Pechino). Dimostra alla scuola intransigente che la Chiesa può stare in un consesso internazionale non agitando come un bastone la «natura», ma come «esperta in umanità». E infine ferma la tensione fra vescovi americani e non, che percorreva il dibattito conciliare sulla guerra totale. Perché è vero che «mai più la guerra, mai più la guerra» scolpisce il discorso; ma poche righe sotto, dopo aver chiesto di far cadere le armi dalle mani, afferma che «finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie», ponendo la parola fine alla discussione conciliare su una condanna della deterrenza atomica che padri come Giacomo Lercaro e periti come Giuseppe Dossetti ritenevano necessaria.
Nella Gaudium et spes rimarrà nettissima la condanna della guerra totale, pronunciata prima che ci si rendesse conto che la guerra moderna è solo «totale»: ma non ci sarà un giudizio profetico sulla natura idolatrica del possesso delle armi atomiche che, come dimostrano gli studi sulle diplomazie al Concilio, i vescovi statunitensi temevano affievolisse la strategia anticomunista.
Affiorano dall’analisi di Riccardi le smussature dell’audace metafora Chiesa-Onu, e i nomi di coloro che faranno la storia successiva: quelli luminosi di Pierre Duprey e Achille Silvestrini, quelli opachi di Paul Marcinkus e Felix Morlion. Ma soprattutto affiora l’entusiasmo di un uomo che pensa che parlare all’Onu sia parlare all’uomo moderno, e che lodarne l’attesa di pace, incoraggiarne il disarmo, ricordargli la voce dei poveri sia il «dovere» del servo dei servi di Dio.