Renzi attacca, poi l’apertura
Duro scontro con Grasso. Ma si profila l’accordo con la minoranza del Pd
Riforma del Senato: Matteo Renzi incassa il via libera all’unanimità dalla Direzione del Pd. La minoranza del partito non ha partecipato alla votazione, ma si profila comunque uno spiraglio per l’intesa. Il segretario, infatti, pur contrario all’elezione diretta dei senatori, è invece favorevole al modello della legge Tatarella che prevede la loro designazione. Ottimismo dell’ex segretario Bersani, assente perché alla Festa dell’Unità a Modena: apertura significativa. Tuttavia, sull’esito della riforma pesa anche la scelta del presidente del Senato, Pietro Grasso, al quale il segretario-premier manda un nuovo avviso: «Se riaprisse sull’articolo 2 sarebbe un fatto inedito».
«Le soluzioni tecniche si trovano», dice Matteo Renzi nella direzione del Pd. E se Pier Luigi Bersani, assente giustificato (era alla chiusura della Festa dell’Unità di Modena), domenica spiegava che all’intesa manca «un millimetro», il premier quello spazio vorrebbe colmarlo ripescando il Tatarellum, legge elettorale del 1995 che prevedeva un «listino». Soluzione che consentirebbe di non toccare il principio dell’elezione indiretta dei nuovi senatori, già votato in «doppia conforme» da Camera e Senato, introducendo però (in un altro comma, il 5 dell’articolo 2) un sistema per il quale gli elettori scelgono in una lista di nomi i consiglieri-senatori, che vengono poi votati dal Consiglio regionale. Strumento che sembra convincere la minoranza del partito, ma con una riserva interpretativa. Tanto che decide di disertare il voto finale della direzione, passato all’unanimità dei votanti.
Resta il nodo degli emendamenti all’articolo 2 della Costituzione, sulla cui ammissibilità dovrà decidere il presidente del Senato Pietro Grasso. Renzi prima attacca: «Se il presidente dicesse sì, si dovrebbero convocare Camera e Senato perché saremmo davanti a un fatto inedito». Poi, dopo le reazioni (Nichi Vendola parla di «minacce» a Grasso) precisa: «Mai minacciato, è ovvio che se il presidente apre, dobbiamo fare una riunione dei gruppi pd. Non è nei poteri del premier la convocazione delle Camere».
Il punto chiave resta l’elettività dei senatori. Per sciogliere la «frustrante dialettica su un puntino secondario», Renzi rievoca il vicepremier di Berlusconi, Pinuccio Tatarella. Lo scontro si ammorbidisce e resta semantico (ma il lessico in questi casi è sostanza). Perché il premier parla di «designazione», la minoranza di «ratifica». È nella distanza tra queste parole che si misura «il millimetro» che manca all’intesa. La prima designazione, fa pendere la bilancia verso l’elezione indiretta (il Consiglio regionale conserva un ruolo di discrezionalità). La seconda lascia all’organo regionale un compito di presa d’atto della volontà degli elettori. È per questo che Miguel Gotor, Roberto Speranza, Gianni Cuperlo e gli altri della minoranza parlano apertamente di «ratifica». Come fa Pier Luigi Bersani, da Modena: «Mi pare che Renzi abbia fatto un’apertura significativa: se si intende che gli elettori scelgono i senatori e i Consigli regionali ratificano, va bene. Meglio tardi che mai: vedremo al Senato come verrà tradotta questa indicazione».
Renzi si paragona alla squadra giapponese di rugby, che ha vinto «giocando il tutto per tutto» ed evoca il ritorno anticipato alle urne: «Un anno e mezzo fa la legislatura era alla fine. Senza riforme questa legislatura non esiste. Non è una minaccia per il futuro, ma una considerazione per il passato». Poi cita il caso Grecia (e l’ex ministro scissionista Varoufakis) e spiega che «chi di scissioni ferisce, di elezioni perisce». C’è spazio anche per «buona scuola», legge di Stabilità, immigrazione. Renzi conferma l’abolizione totale di Tasi e Imu sulla prima casa. Attacca il britannico Corbyn: «I laburisti inglesi godono nel perdere». Sul caso Kyenge (con il «salvataggio» di Roberto Calderoli da parte del Pd), annuncia «una riunione ad hoc ».