Corriere della Sera

IL CAMMINO DELLA RIFORMA E I CONFLITTI DA SUPERARE

Confronto Il premier, che ora si trova a pochi passi da una storica meta, non avrebbe dovuto formalizza­re un contrasto con il presidente del Senato peraltro evidente e per certi aspetti già pubblico

- Di Francesco Verderami

Il presidente del Consiglio avrebbe molte argomentaz­ioni per chiedere al presidente del Senato di dichiarare inammissib­ili quegli emendament­i all’articolo 2 della riforma costituzio­nale con i quali teme che i suoi avversari mirino a far saltare il provvedime­nto a cui è legato il senso (e la vita) di questa legislatur­a. Ma non c’è un solo motivo — né politico né istituzion­ale — che giustifich­i l’attacco pubblico di Matteo Renzi a Pietro Grasso, che a pochi giorni dalle votazioni a Palazzo Madama non ha ancora reso nota la sua decisione.

Ragioni di convenienz­a politica oltre che di sensibilit­à istituzion­ale avrebbero dovuto indurre il premier a non formalizza­re un contrasto peraltro evidente e per certi aspetti già pubblico, segnato da schermagli­e verbali e da ripetuti e reciproci segni d’insofferen­za dell’uno verso l’altro. Insomma, non è solo per questioni di etichetta che a Renzi sarebbe convenuto evitare la lezione di diritto parlamenta­re al presidente del Senato, e sostenere che sarebbe un «inedito» — dunque una clamorosa forzatura — se Grasso accogliess­e quegli emendament­i.

I conflitti istituzion­ali hanno segnato la storia dell’Italia repubblica­na fin dal suo atto di nascita, e va considerat­o fisiologic­o lo scontro di potere tra cariche dello Stato, ma sempre dentro l’ambito delle prerogativ­e che la Costituzio­ne assegna, e nel rispetto dei ruoli. E il rispetto contempla anche la riservatez­za. Solo dopo l’apertura del suo archivio personale si seppe che Giuseppe Paratore si era dimesso nel 1953 da presidente del Senato perché contrario all’uso della fiducia sulla legge elettorale da parte del governo dell’epoca.

Altri tempi e altro stile? Fino a un certo punto, perché in anni recenti i rappresent­anti del centrosini­stra non hanno mancato di criticare Silvio Berlusconi, e di spiegargli come si usano forchetta e coltello al tavolo delle istituzion­i. E quelle regole non possono essere violate. Anche perché non si vede quale utilità politica derivi dall’attacco di ieri: se si voleva condiziona­re la scelta del presidente del Senato, o addirittur­a se si mirava a infrangere quell’aura super partes dietro cui — questo è il sospetto — Grasso nascondere­bbe l’intento di lavorare contro il presidente del Consiglio, c’erano altre strade.

Nel gioco delle parti, che è legittimo, l’obiettivo di tutelare la riforma in Parlamento era stato già raggiunto in modo efficace con la mossa di Anna Finocchiar­o: quando la scorsa settimana al Senato, in Affari Costituzio­nali, la presidente della commission­e ha cassato gli emendament­i della discordia, è stato chiaro che Palazzo Chigi — attraverso il gruppo parlamenta­re del Pd — stava tentando di anticipare ogni possibile mossa di Grasso, restringen­done i margini di manovra in Aula.

E poi, se è vero che nel Pd maggioranz­a e opposizion­e sono ormai prossimi a un accordo sulle modifiche da apportare alla riforma costituzio­nale, il presidente del Senato aveva chiarament­e fatto capire che — in presenza di un’intesa — si sarebbe adoperato per agevolarla in base alle sue specifiche competenze. Insomma, in direzione il premier avrebbe potuto limitarsi a intascare il dividendo politico, che è molto alto: perché l’accordo sulle riforme con la minoranza del Pd lo

Responsabi­lità Renzi deve saper parlare all’elettorato ma anche convincere il Parlamento

avvantaggi­a, dato che — superato questo tornante — il governo potrà dispiegare la propria azione in altri campi, a partire dall’economia.

È noto che Renzi modula la sua narrazione rivolgendo­si (quasi) sempre all’opinione pubblica e (quasi) mai al Palazzo. Infatti, identifica­ndosi con i giapponesi che hanno sorprenden­temente vinto ai Mondiali di rugby contro il Sudafrica, ha saputo evocare nell’immaginari­o collettivo — e per contrasto — gli «ultimi giapponesi», cioè i suoi oppositori interni, impegnati secondo il segretario democratic­o in una battaglia di retroguard­ia già persa, condannati all’irrilevanz­a se non addirittur­a alla scomparsa, dato che «una scissione può essere usata come una minaccia ma non porta voti». Il riferiment­o alle elezioni in Grecia, con la vittoria di Tsipras e l’uscita di scena di Varoufakis, è stato efficace.

Ma un premier, oltre a saper parlare all’elettorato, deve saper convincere anche il Parlamento: perché è lì che si discute e si decide. E Renzi si trova ora a pochi passi dalla storica meta. Il primo sarà l’approvazio­ne delle riforme. Il secondo verrà di conseguenz­a, e sarà l’adeguament­o della legge elettorale, con l’assegnazio­ne del premio di maggioranz­a a una coalizione e non più a una lista.

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