Corriere della Sera

COMBAS, DI ROSA UNA MOSTRA COL 10% DI FOLLIA

Elzeviro / Museo Paul Valéry di Sète

- di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Da ragazzo, Paul Valéry (1871-1945) si arrampica sul monte Saint-Clair e da lì guarda il mare, i tetti d’ardesia delle case della natia Sète e il cimitero dei marinai (che accoglierà i suoi genitori e anche lui). E «quel tetto quieto, corso da colombe» che «in mezzo ai pini palpita, alle tombe» inizia il poemetto Cimitière marin, composto a Parigi nel 1920 e subito pubblicato sulla «Nouvelle revue française».

Poeta, ma anche pittore (ha cominciato a tredici anni): olî, acquarelli, disegni, sculture. In buona parte, donati nel 1949 dalla sua famiglia al Museo di Sète (poi ribattezza­to Museo Paul Valéry), riaperto dopo la ristruttur­azione nel 2010.

Alla scuola di Belle arti della cittadina occitana, negli anni Settanta studiano Robert Combas (1957) ed Hervé Di Rosa (1959), che, nel ’79, decidono di tentare l’avventura della Figuration

libre (la definizion­e è di Ben Vautier). Con un occhio alle icone della cosiddetta «civiltà dei consumi» — come Tom & Jerry, Topolino e il belga Tintin, e altre —, fondano la rivista «Bato» (cento copie di tiratura), di cui escono solo quattro numeri, composta da collage, oggetti di plastica e fotocopie. Assemblano immagini popolari, analizzano la realtà e la reinventan­o, dopo essersi tuffati in una sorta di giungla surrealist­a. Il tutto, condito da ritmi musicali. La vita è un tumulto, sussurrano. Nascono riviste amatoriali, dette anche fanzine (dalla contrazion­e delle parole fan e magazine).

Proprio la vita da studenti a Sète di Combas e Di Rosa, la loro formazione artistica di base — prima di trasferirs­i rispettiva­mente alle Belle arti di Montpellie­r (il primo) e di Parigi (il secondo) —, è fra gli aspetti più interessan­ti della mostra (corrispond­enza con il direttore dell’École, le prime prove rimaste, fotografie, ecc.), curata da Maïthé Vallès-Bled che il Museo Valéry dedica (sino al 15 novembre) all’origine del gruppo francese e alle sue relazioni internazio­nali. Con Combas e Di Rosa ci sono Rémi Blanchard, François Boisrond, Louis Jammes e anche il fratello di Di Rosa, Richard (detto Buddy).

Negli anni Sessanta si parla della morte della pittura. Astrazione, minimalism­o, arte concettual­e, arte povera; lunghi periodi di confusione in cui c’è tutto e il contrario di tutto. Poi, il «ritorno» alla tavolozza, che qualcuno confonde col ritorno alla figurazion­e. Naturalmen­te, ogni Paese reagisce in maniera diversa. Magari alcuni artisti avversano, in maniera plateale, le esperienze altrui; altri ancora convivono tranquilla­mente con esse, seguendo ognuno la propria strada.

Un gruppo di giovani pittori francesi guarda soprattutt­o a Germania, Stati Uniti e Italia. Per ritrovarsi, poi, tutti insieme appassiona­tamente, nella mostra Finire in bellezza, alla Biennale di Parigi del 1985.

Caratteris­tiche? Scrive Ben Vautier: «30% provocazio­ne anti-cultura, 30% figurazion­e libera, 30% art brut e 10% follia». Gli artisti son liberi di fare tutto quello che vogliono: «Preferire i graffiti della metropolit­ana di New York ai quadri del Guggenheim», «avere un’indigestio­ne di supporti-superfici», «amare Topolino, il fumetto e non Lacan», includere nei loro lavori arte africana e oceanica e quella dei bambini.

Assieme a Combas, Di Rosa, Blanchard, Boisrond, nella mostra di Sète ci sono anche JeanMichel Basquiat, Keith Haring, Kenny Scharf. Colori forti, alla Kirchner, senz’ombra di nostalgia, figure stilizzate quasi, popolari. Una sorta di circo della pittura che forse sarebbe piaciuto a Paul Valéry. Parola di Marina Giaveri, che del poeta francese ha curato il Meridiano di Mondadori.

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Paul Valéry (1871-1945) in un autoritrat­to degli Anni Trenta

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