COMBAS, DI ROSA UNA MOSTRA COL 10% DI FOLLIA
Elzeviro / Museo Paul Valéry di Sète
Da ragazzo, Paul Valéry (1871-1945) si arrampica sul monte Saint-Clair e da lì guarda il mare, i tetti d’ardesia delle case della natia Sète e il cimitero dei marinai (che accoglierà i suoi genitori e anche lui). E «quel tetto quieto, corso da colombe» che «in mezzo ai pini palpita, alle tombe» inizia il poemetto Cimitière marin, composto a Parigi nel 1920 e subito pubblicato sulla «Nouvelle revue française».
Poeta, ma anche pittore (ha cominciato a tredici anni): olî, acquarelli, disegni, sculture. In buona parte, donati nel 1949 dalla sua famiglia al Museo di Sète (poi ribattezzato Museo Paul Valéry), riaperto dopo la ristrutturazione nel 2010.
Alla scuola di Belle arti della cittadina occitana, negli anni Settanta studiano Robert Combas (1957) ed Hervé Di Rosa (1959), che, nel ’79, decidono di tentare l’avventura della Figuration
libre (la definizione è di Ben Vautier). Con un occhio alle icone della cosiddetta «civiltà dei consumi» — come Tom & Jerry, Topolino e il belga Tintin, e altre —, fondano la rivista «Bato» (cento copie di tiratura), di cui escono solo quattro numeri, composta da collage, oggetti di plastica e fotocopie. Assemblano immagini popolari, analizzano la realtà e la reinventano, dopo essersi tuffati in una sorta di giungla surrealista. Il tutto, condito da ritmi musicali. La vita è un tumulto, sussurrano. Nascono riviste amatoriali, dette anche fanzine (dalla contrazione delle parole fan e magazine).
Proprio la vita da studenti a Sète di Combas e Di Rosa, la loro formazione artistica di base — prima di trasferirsi rispettivamente alle Belle arti di Montpellier (il primo) e di Parigi (il secondo) —, è fra gli aspetti più interessanti della mostra (corrispondenza con il direttore dell’École, le prime prove rimaste, fotografie, ecc.), curata da Maïthé Vallès-Bled che il Museo Valéry dedica (sino al 15 novembre) all’origine del gruppo francese e alle sue relazioni internazionali. Con Combas e Di Rosa ci sono Rémi Blanchard, François Boisrond, Louis Jammes e anche il fratello di Di Rosa, Richard (detto Buddy).
Negli anni Sessanta si parla della morte della pittura. Astrazione, minimalismo, arte concettuale, arte povera; lunghi periodi di confusione in cui c’è tutto e il contrario di tutto. Poi, il «ritorno» alla tavolozza, che qualcuno confonde col ritorno alla figurazione. Naturalmente, ogni Paese reagisce in maniera diversa. Magari alcuni artisti avversano, in maniera plateale, le esperienze altrui; altri ancora convivono tranquillamente con esse, seguendo ognuno la propria strada.
Un gruppo di giovani pittori francesi guarda soprattutto a Germania, Stati Uniti e Italia. Per ritrovarsi, poi, tutti insieme appassionatamente, nella mostra Finire in bellezza, alla Biennale di Parigi del 1985.
Caratteristiche? Scrive Ben Vautier: «30% provocazione anti-cultura, 30% figurazione libera, 30% art brut e 10% follia». Gli artisti son liberi di fare tutto quello che vogliono: «Preferire i graffiti della metropolitana di New York ai quadri del Guggenheim», «avere un’indigestione di supporti-superfici», «amare Topolino, il fumetto e non Lacan», includere nei loro lavori arte africana e oceanica e quella dei bambini.
Assieme a Combas, Di Rosa, Blanchard, Boisrond, nella mostra di Sète ci sono anche JeanMichel Basquiat, Keith Haring, Kenny Scharf. Colori forti, alla Kirchner, senz’ombra di nostalgia, figure stilizzate quasi, popolari. Una sorta di circo della pittura che forse sarebbe piaciuto a Paul Valéry. Parola di Marina Giaveri, che del poeta francese ha curato il Meridiano di Mondadori.