PASSERELLA ITALIA
DAL DOPOGUERRA AL SESSANTOTTO COSÌ LA CREATIVITÀ DI UN PAESE HA SCRITTO LE TAPPE DEL COSTUME
L’appuntamento Alla Villa Reale di Monza approda in un allestimento del tutto nuovo la mostra Bellissima, inaugurata nel 2014 al MAXXI di Roma. Oltre agli abiti e ai gioielli, un’inedita galleria dei tessuti che hanno fatto brillare la nostra alta moda
Quale filo unisce Jole Veneziani, che nel suo atelier milanese tra le macerie dei bombardamenti disegna pellicce da sogno e Valentino che nella Roma della Dolce Vita prende le misure a Jackie Kennedy/ Onassis? Un filo che documenta, anche nei momenti più improbabili, l’attitudine d’un Paese al talento e alla creatività. Ecco perché definendo questa attitudine con un aggettivo non si può sfuggire dal superlativo Bellissima, come titola la mostra (sottotitolo L’Italia dell’alta moda 1945-1968) che, dopo l’esordio romano al Maxxi, approda giovedì alla Villa Reale di Monza.
Bellissima forse anche come richiamo all’omonimo film (’51) interprete una Anna Magnani in sottoveste e tailleur, italiana-simbolo di quegli anni speranzosi e regista Luchino Visconti, poi cantore d’industrializzazione e migrazione sud-nord nel con Rocco e i suoi fratelli.
Certo, nella mostra si parla d’eleganza ma pare quasi un pretesto per mettere la lente su quei quasi tre decenni che hanno segnato il botto più fragoroso nel costume italiano: non a caso abiti, accessori e gioielli (dello sponsor Bulgari) sono inframmezzati da immagini di foto-testimoni come Federico Garolla, Johnny Moncada, Ugo Mulas, da filmati di Rai Teche, Istituto Luce oltre al video di culto con spezzoni firmati Antonioni, Rossellini, Fellini.
A parte la straordinaria collezione d’abiti della giornalista Silvana Bernasconi, prestata da Palazzo Morando Costume Moda, la mostra di Monza ha un inedito nocciolo nella galleria dei tessuti (belli certi libri-campionari) «perché è proprio nell’alta tradizione della nostra industria tessile — conferma Maria Luisa Frisa, critico, docente e “mente” di Bellissima, con Anna Mattirolo e Stefano Tonchi — che il talento dei nostrist sarti e designer ha trovato terrenono fertile mondanitànell’alta moda postbellica,e successivamente con valeon nel prêt-à-porter».
Agli albori della rinata ed elegante le sarte su Jole diversi Venezianiabiti in e Biki, mostra spiccano picrai tessuti Lanerossi e i ricami di Pi no Grasso. Sono i giorni (’48) in cui si legge della contessa Bellentani che, a un galà di Villa d’Este a Cernobbio, uccide l’industrialeamante Carlo Sacchi con una pistola nascosta nella sontuosa pelliccia d’ermellino. O si sospira per le nozze romane (’49) dei divi Tyrone Power e Linda Christian, lei con leggendario vestito delle Sorelle Fontana.
Gli anni 50, hanno invece il fruscio flessuoso delle sete comasche (Taroni, Bedetti Pedraglio, Verga, Clerici Tessuto) e gli abiti decorati di Emilio Schubert, stilista romano che i meno giovani ricordano mondano protagonista (con indimenticabile tirabaci sulla fronte) nei cinegiornali in bianco e nero. Sono gli anni della ricostruzione in un Paese che accende la luce dopo un lungo buio: si firmano cambiali per l’utilitaria Fiat 600 e il giovedì sera, nei bar, si fantastica davanti a mastodon- tiche tv con Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno, dove il massimo montepremi, 5.120.000 lire, provoca giramenti di testa.
Le lane di Marzotto, Agnona, Piacenza e compagnia riscaldano gli anni 60, decennio di nuove ricchezze (ma anche nuove inquietudini) e nuovi modi d’intendere l’arte, come dimostrano l’abito da cocktail in twill di seta con motivi optical di Germana Marucelli con Getulio Alviani, quello di Mila Schon ispirato ai tagli avanguardisti di Lucio Fontana, il cappotto di Roberto Capucci, omaggio alle opere di Burri, il mantello in gabardine di lana con «V» metallico sulle tasche di Valentino. Siamo in pieno boom economico, domina la pubblicità, proliferano i consumi e ci sono i ragazzi che prima amano i Beatles e i Rolling Stones, la minigonna e i vestiti ultra-slim, poi praticano pacifismo hippy e contestazione dei valori borghesi.
Eleganza e formalismo diventano un sinonimo di ostentazione e potere, da sostituire con nuovi feticci: jeans, eskimo, sandali, vestiti lunghi, coroncine di fiori, zoccoli, maglioni di lana cruda (quasi urticante), scarponcini scamosciati da corteo. Il filo della mostra si tende nel ’45 con le pellicce di Jole Veneziani, per le signore che attendono la riapertura della Scala, e si spezza nel ’68, proprio davanti alla Scala, con le uova del Movimento Studentesco contro smoking e paillettes graziosamente attesi alla prima del Don Carlos.
Ecco perché il ’68, con un’epoca, chiude anche Bellissima.