Non basta la stoffa dei nostri artigiani
è stato un momento in cui, negli anni dell’ubriacatura finanziaria, erano stati considerati una specie in via di estinzione. Per fortuna le previsioni si sono rivelate sbagliate (come molte previsioni, d’altronde). Le aziende del tessile si sono riorganizzate mantenendo le posizioni di leadership (il gruppo Ratti-Marzotto, per esempio, resta il primo gruppo tessile europeo e il primo al mondo per la lana) e gli artigiani della moda sono ancora al loro posto. Più attivi di prima nell’inventare il filato nuovo, nel trovare il processo produttivo che abbia il minor impatto ambientale possibile (è questa la nuova frontiera della moda), nel disegnare l’accessorio che darà all’abito o alla scarpa del noto brand della moda quel qualcosa che lo differenzi da tutti gli altri. Non è un caso che la mostra «Bellissima» si fondi sul tessuto, il cui rapporto con lo stile è profondissimo. Tanto stretto che, anche in un Paese amato e odiato come la Cina, la first lady Peng Liyuan spinge il design cinese indossando solo marchi locali rigorosamente realizzati, però, con tessuti italiani. Pur tra mille difficoltà e anche con momenti di vera e propria contrapposizione, l’Italia è riuscita a mantenere quell’insieme di produzioni che sono chiamate «filiera», il luogo dove avviene lo scambio di saperi e competenze che spingono la creatività e l’innovazione. Le rilevazioni ci dicono che i distretti hanno ricominciato a correre, recuperando export. Il punto è che tutto questo non è più sufficiente. Molti produttori italiani di tessuto continuano a scegliere il francese Premiere Vision per presentare la propria offerta anziché Milano Unica, il salone italiano che di recente ha esportato il suo modello in Cina, prima, e negli Stati Uniti, poi. Un’esperienza su cui il governo sta puntando. Perché oggi la nuova sfida è questa: come organizzare la presenza all’estero del made in Italy.
Bisogna difendere la filiera ma rivedendo il modo in cui il Made in Italy si presenta