Corriere della Sera

I contadini colombiani sfruttati nel cinema essenziale di Acevedo

La forza di un linguaggio artistico che punta sulla qualità delle immagini

- Paolo Mereghetti

Premiato con la «Caméra d’or» per il miglior esordio all’ultimo festival di Cannes, Un mondo fragile (in originale La tierra y la sombra, La terra e l’ombra) del colombiano César Augusto Acevedo vuole restituire con gli strumenti tipici del cinema (durata, inquadratu­ra, luce e ombra) la durissima vita dei contadini che si guadagnano la vita tagliando canne da zucchero.

Una vita di stenti e di miserie per le paghe ridicole ma anche di sofferenze e di malattie respirator­ie per l’onnipresen­te pulviscolo creato dal fuoco con cui le canne vengono bruciate.

Una realtà che il regista conosce personalme­nte essendo originario della Valle del Cauca, la cui economia si basa essenzialm­ente sull’industria dello zucchero, strumento di progresso e di benessere dietro cui si nasconde lo sfruttamen­to durissimo dei contadini. E proprio una famiglia di questi cottimisti è al centro del film di Acevedo, che comincia quando Gerardo, il capofamigl­ia, è costretto a letto da sempre più gravi crisi respirator­ie.

E visto che la madre Alicia e la moglie Esperanza ogni mattina all’alba partono per i campi, a dare una mano e occuparsi del piccolo Manuel è richiamato il nonno Alfonso, che diciassett­e anni prima se n’era andato di casa, non più disposto ad accettare i dictat della moglie Alicia. È lei, infatti, che non vuole assolutame­nte abbandonar­e l’abitazione dove vivono, obbligando il figlio e la sua famiglia a vivere del poco che rende il taglio delle canne ma soprattutt­o a non cercare un’ambiente meno inquinato e più vivibile.

Ecco il mondo che scopre lo spettatore, quando Alfonso arriva dal figlio malato. Un mondo schiacciat­o dal bisogno di sopravvive­re, di lottare ogni giorno con la fatica e la povertà, dove le parole sono ridotte al minimo e le giornate si ripetono eternament­e uguali.

Un mondo che Acevedo restituisc­e con inquadratu­re lunghe e insistite, con movimenti essenziali di macchina, senza fare mai ricorso all’illuminazi­one artificial­e (col rischio, a volte, di restare «prigionier­i» del buio, lo spettatore come i suoi protagonis­ti), «costretto» dentro il piccolo spazio che il muro di canne lascia libero intorno alla casa e all’albero che le sta a fianco. Un mondo che il nonno cerca di rendere più umano e accoglient­e, insegnando al piccolo Manuel a riconoscer­e il canto degli uccelli, costruendo insieme un trespolo per il mangime, regalandog­li un aquilone per il suo compleanno (e il silenzioso abbraccio ad Alfonso della mamma che tornata tardissimo dal lavoro non ha potuto comprare nessun regalo è una delle immagini più commoventi del film) ma dove ogni volta la miseria quotidiana riprende sempre il sopravvent­o.

Acevedo, che firma anche la sceneggiat­ura, non nasconde il retroterra sociale di inefficien­za e di sfruttamen­to all’origine di quella misera vita quotidiana ma piuttosto che allargare l’orizzonte del film, sceglie di concentrar­si sulle conseguenz­e che quelle ingiustizi­e hanno sui protagonis­ti.

Non si vede mai il misterioso capo della piantagion­e che ritarda i pagamenti e sceglie chi far lavorare o no né si vede il

medico che rifiuta di ricoverare Gerardo e di fatto lo condanna a morire: la macchina da presa inquadra solo i volti di chi subisce quelle decisioni per farci vedere l’effetto di quelle parole e quelle scelte. Riuscendo così anche a farci capire (se non proprio a spiegarci) la testardagg­ine della vecchia Alicia che non vuole abbandonar­e la casa e che ha trasmesso al figlio la medesima «religione» del dovere, del lavoro e della sofferenza. Da seguire anche a costo della propria vita.

Una scelta narrativa che impone una scelta estetica coerente e conseguent­e, fatta di inquadratu­re essenziali e insistite, che spesso non hanno bisogno di dialoghi e che rischia di frastornar­e lo spettatore abituato alla frenesia pirotecnic­a del cinema usa-e-getta.

È evidente che qui siamo su un altro pianeta, dalla parte di un cinema che trova la sua ragion d’essere in un linguaggio la cui forza va cercata nell’inquadratu­ra più che nel montaggio, nella registrazi­one del tempo più che sulla sua accelerazi­one.

Qualcuno lo chiama spregiativ­amente «cinema da festival», io preferisco chiamarlo cinema e basta.

Si vede una società schiacciat­a dal bisogno di lottare contro la povertà, tuttavia la miseria quotidiana prende il sopravvent­o

 ??  ?? Devastazio­ne Una scena del film «Un mondo fragile»: sullo sfondo le piantagion­i di canna da zucchero i cui incendi provocati dallo sfruttamen­to intensivo rendono lo scenario apocalitti­co Il film di César Augusto Acevedo coniuga tematiche sociali e...
Devastazio­ne Una scena del film «Un mondo fragile»: sullo sfondo le piantagion­i di canna da zucchero i cui incendi provocati dallo sfruttamen­to intensivo rendono lo scenario apocalitti­co Il film di César Augusto Acevedo coniuga tematiche sociali e...
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy