I contadini colombiani sfruttati nel cinema essenziale di Acevedo
La forza di un linguaggio artistico che punta sulla qualità delle immagini
Premiato con la «Caméra d’or» per il miglior esordio all’ultimo festival di Cannes, Un mondo fragile (in originale La tierra y la sombra, La terra e l’ombra) del colombiano César Augusto Acevedo vuole restituire con gli strumenti tipici del cinema (durata, inquadratura, luce e ombra) la durissima vita dei contadini che si guadagnano la vita tagliando canne da zucchero.
Una vita di stenti e di miserie per le paghe ridicole ma anche di sofferenze e di malattie respiratorie per l’onnipresente pulviscolo creato dal fuoco con cui le canne vengono bruciate.
Una realtà che il regista conosce personalmente essendo originario della Valle del Cauca, la cui economia si basa essenzialmente sull’industria dello zucchero, strumento di progresso e di benessere dietro cui si nasconde lo sfruttamento durissimo dei contadini. E proprio una famiglia di questi cottimisti è al centro del film di Acevedo, che comincia quando Gerardo, il capofamiglia, è costretto a letto da sempre più gravi crisi respiratorie.
E visto che la madre Alicia e la moglie Esperanza ogni mattina all’alba partono per i campi, a dare una mano e occuparsi del piccolo Manuel è richiamato il nonno Alfonso, che diciassette anni prima se n’era andato di casa, non più disposto ad accettare i dictat della moglie Alicia. È lei, infatti, che non vuole assolutamente abbandonare l’abitazione dove vivono, obbligando il figlio e la sua famiglia a vivere del poco che rende il taglio delle canne ma soprattutto a non cercare un’ambiente meno inquinato e più vivibile.
Ecco il mondo che scopre lo spettatore, quando Alfonso arriva dal figlio malato. Un mondo schiacciato dal bisogno di sopravvivere, di lottare ogni giorno con la fatica e la povertà, dove le parole sono ridotte al minimo e le giornate si ripetono eternamente uguali.
Un mondo che Acevedo restituisce con inquadrature lunghe e insistite, con movimenti essenziali di macchina, senza fare mai ricorso all’illuminazione artificiale (col rischio, a volte, di restare «prigionieri» del buio, lo spettatore come i suoi protagonisti), «costretto» dentro il piccolo spazio che il muro di canne lascia libero intorno alla casa e all’albero che le sta a fianco. Un mondo che il nonno cerca di rendere più umano e accogliente, insegnando al piccolo Manuel a riconoscere il canto degli uccelli, costruendo insieme un trespolo per il mangime, regalandogli un aquilone per il suo compleanno (e il silenzioso abbraccio ad Alfonso della mamma che tornata tardissimo dal lavoro non ha potuto comprare nessun regalo è una delle immagini più commoventi del film) ma dove ogni volta la miseria quotidiana riprende sempre il sopravvento.
Acevedo, che firma anche la sceneggiatura, non nasconde il retroterra sociale di inefficienza e di sfruttamento all’origine di quella misera vita quotidiana ma piuttosto che allargare l’orizzonte del film, sceglie di concentrarsi sulle conseguenze che quelle ingiustizie hanno sui protagonisti.
Non si vede mai il misterioso capo della piantagione che ritarda i pagamenti e sceglie chi far lavorare o no né si vede il
medico che rifiuta di ricoverare Gerardo e di fatto lo condanna a morire: la macchina da presa inquadra solo i volti di chi subisce quelle decisioni per farci vedere l’effetto di quelle parole e quelle scelte. Riuscendo così anche a farci capire (se non proprio a spiegarci) la testardaggine della vecchia Alicia che non vuole abbandonare la casa e che ha trasmesso al figlio la medesima «religione» del dovere, del lavoro e della sofferenza. Da seguire anche a costo della propria vita.
Una scelta narrativa che impone una scelta estetica coerente e conseguente, fatta di inquadrature essenziali e insistite, che spesso non hanno bisogno di dialoghi e che rischia di frastornare lo spettatore abituato alla frenesia pirotecnica del cinema usa-e-getta.
È evidente che qui siamo su un altro pianeta, dalla parte di un cinema che trova la sua ragion d’essere in un linguaggio la cui forza va cercata nell’inquadratura più che nel montaggio, nella registrazione del tempo più che sulla sua accelerazione.
Qualcuno lo chiama spregiativamente «cinema da festival», io preferisco chiamarlo cinema e basta.
Si vede una società schiacciata dal bisogno di lottare contro la povertà, tuttavia la miseria quotidiana prende il sopravvento