Corriere della Sera

VITA DI FILIPPO ANFUSO DA FIUME A SALÒ

- Filippo Ferreti filippo.ferreti@libero.it

Filippo Anfuso venne condannato a morte in contumacia nel 1945 dall’Alta Corte di Giustizia per collaboraz­ionismo con i nazisti e per crimini fascisti. Nel 1949 invece dalla Corte d’appello di Perugia venne assolto. Forse è normale che ciò sia avvenuto, ma la cosa mi lascia disorienta­to. Per inquadrare meglio la sua personalit­à potrebbe tracciarne un profilo? E vorrei capire qualcosa di più come funzionava la giustizia nel dopoguerra. Caro Ferreti,

Filippo Anfuso sembrava destinato a una carriera giornalist­ica e letteraria. A Catania, dove era nato nel 1901, aveva pubblicato versi e racconti. A Roma, dove studiò giurisprud­enza con Galeazzo Ciano, collaborav­a con parecchi giornali e nel 1919 fu inviato a Fiume dall’Idea Nazionale per raccontare l’«impresa» di d’Annunzio ai lettori del maggiore periodico nazionalis­ta. Ma era anche attratto dal mondo della diplomazia e nel 1925 vinse insieme a Ciano il concorso del ministero degli Esteri.

Fece alcune esperienze in Europa, tornò a Roma per lavorare al Gabinetto del ministro e ne divenne il capo quando Mussolini dette il ministero degli Esteri a Galeazzo Ciano, da qualche anno suo genero. Ma Anfuso non fu mai un «raccomanda­to». Era brillante, acuto, bene informato e destinato ad avere un ruolo di primo piano nella politica estera italiana sino a quando la logica dell’alleanza con la Germania rese Mussolini sordo ai consigli e agli ammoniment­i dei suoi principali collaborat­ori. Ma questo non impedì che Anfuso, anche quando non condividev­a le iniziative di Mussolini, ne subisse il fascino. Chiese di lasciare Roma e divenne ministro a Budapest, ma quando Mussolini fu liberato dal Gran Sasso, dopo l’armistizio dell’8 settembre, gli inviò un telegramma per dirgli che sarebbe stato con lui «sino alla morte». Grato per questa manifestaz­ione di lealtà, il capo della Repubblica sociale italiana, come fu chiamato lo Stato fascista, lo nominò ambasciato­re a Berlino e, poche settimane prima della fine della guerra, viceminist­ro degli Esteri. Anfuso stava rientrando a Salò il 25 aprile 1945 quando incrociò i comandi tedeschi in fuga e capì che tutto ormai era finito. Sapeva che il 12 marzo, a Roma, un tribunale lo aveva accusato di complicità nell’assassinio dei fratelli Rosselli, in Francia nel 1937, e lo aveva condannato a morte con «fucilazion­e alla schiena». Era a Parigi in cerca di un rifugio, nell’ottobre del 1945, quando fu arrestato dalle autorità francesi per le stesse ragioni. Rimase nelle prigioni francesi per tre anni, dal 1945 al 1947, e in quella di Fresnes, dove passò il periodo più lungo, dovette saziare la curiosità dei suoi compagni di carcere, quasi tutti criminali comuni, che continuava­no a fargli domande su Mussolini. Quando la magistratu­ra francese decise che nel caso dei fratelli Rosselli non vi era «luogo a procedere», andò in Spagna dove riprese la sua attività giornalist­ica. Tornò in Italia nel 1949, quando venne assolto dal Tribunale d’appello di Perugia, e intraprese una nuova carriera politica nel Movimento sociale italiano.

Alla sua domanda sul funzioname­nto della giustizia in Italia, caro Ferreti, posso soltanto rispondere che le sentenze del 1945 risentivan­o del clima giacobino e «giustizier­o» che dominava allora una parte della politica italiana. Per rappacific­are gli animi giunse nel 1946 l’amnistia decretata dal ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti.

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