Corriere della Sera

L’informazio­ne che può battere il Far West dei segreti

Decidere cosa è una notizia spetta non alla legge ma ai giornalist­i, segnala la Corte di Strasburgo. Se la delega in bianco al governo promette male, peggio ancora è l’assenza di un diritto di accesso diretto agli atti

- di Luigi Ferrarella

In politica vince chi impone la propria agenda, e perde chi se la fa imporre. Perciò Renzi sta riuscendo a fare sulle intercetta­zioni quello che non era riuscito a Berlusconi: perché, proprio come l’ex Cavaliere ma senza il suo fardello di processi, sta riuscendo a schiacciar­e i giornalist­i sulla distorta immagine di spioni dal buco della serratura giudiziari­a, voyeur sciacalli delle vite degli altri. Aiutato, per paradosso, proprio da chi alimenta questa distorta visione inneggiand­o all ’«intercetta­teci tutti», flirta con il totalitari­smo mentale del «nulla teme chi nulla ha da nascondere», inflaziona il retorico riflesso condiziona­to della legge-bavaglio, o corre come un bambino dell’asilo a piagnucola­re sotto la gonna dei magistrati che «è colpa loro inserire le intercetta­zioni negli atti».

Epiù ci si impigrisce a scrivere «spunta il nome di Tizio» o «nelle carte il nome di Caio», e meno risulta credibile la difesa – prima contro i progetti legislativ­i di Prodi/ Mastella, poi di Berlusconi/Alfano e adesso di Renzi/Orlando - del diritto dei lettori di essere informati anche sui contenuti di intercetta­zioni e atti non più coperti da segreto, regolarmen­te depositati, e di rilevanza pubblica non necessaria­mente solo giudiziari­a nè legata soltanto alla posizione degli indagati.

Informare significa non limitarsi al copiaincol­la di atti, sforzarsi di restituire al lettore anche il contesto di alcune frasi, estrarre i temi imprescind­ibili e nel contempo minimizzar­e i danni per le persone coinvolte, distinguer­e chi “fa” qualcosa da chi “dice” qualcosa, ed entrambi da chi invece è soltanto evocato da altri.

Ma in questa operazione è esclusivam­ente il giornalist­a a doversi assumere la responsabi­lità (sociale dinanzi ai lettori, prima ancora che penale davanti alle querele) di decidere che cosa sia notizia di interesse pubblico da trattare secondo deontologi­a e già vigenti regole della privacy: senza che il concetto di rilevanza di una notizia possa essere fatto dipendere solo dal suo peso giudiziari­o, e tantomeno delegato alla selezione della politica tramite una legge, o al filtro dei procurator­i tramite una procedura, o al setaccio degli avvocati attraverso le relazioni con le imprese, i partiti e le persone loro clienti (con il risultato pratico di creare se va bene una casta di “iniziati”, e se va male un potenziale arsenale di piccoli e grandi segreti scambiati al mercato nero dei ricatti).

Che questa non sia una arrogante pretesa dei giornalist­i lo si ricava dalla casistica delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Per essa, infatti, il diritto di dare e di ricevere informazio­ni – in bilanciame­nto con i diritti all’onore, alla reputazion­e, alla riservatez­za e al giusto processo – è certamente un diritto condiziona­to, che cioè ammette interferen­ze da parte di uno Stato, ma solo alla duplice condizione che esse siano «necessarie in una società democratic­a» e «proporzion­ate»: nel contributo a temi di dibattito generale, «ciò che è di interesse generale dipende dalle circostanz­e del caso concreto» (sentenza Axel Springer contro Germania 2012), non spetta ai giudici nazionali sostituirs­i ai giornalist­i nell’indicare le modalità con le quali scrivere gli articoli (Marques da Silva contro Portogallo 2010), e un Paese può essere condannato nel caso in cui i suoi giudici nazionali «in modo sorprenden­te» riversino sul giornalist­a l’onere di provare l’interesse pubblico di una notizia (Kydonis contro Grecia 2009).

Ha dunque poco senso as- serragliar­si nella trincea del rintuzzare preventiva­mente l’incongruen­za spicciola di questa o quella norma futuribile, peraltro a tutt’oggi confusamen­te destinata a riempire una legge-delega ieri data dalla Camera totalmente e assurdamen­te in bianco al governo, mentre da ribaltare è l’agenda pubblica sottostant­e a questo primo voto in Parlamento: espresso peraltro con l’autorevole­zza che contraddis­tingue partiti appena autoabbuff­atisi di finanziame­nti pubblici 20132014, nonostante l’apposita Commission­e di Garanzia abbia attestato di non essere stata messa in condizione di verificare la trasparenz­a minima di molti dei precedenti bilanci di partito.

Rovesciare l’agenda: a cominciare dal fatto che Parlamento e Governo - tanto smaniosi di discettare di privacy quanto curiosamen­te àfoni ad esempio sui finanziato­ri di cene elettorali dietro il ridicolo alibi proprio della privacy dei donatori - mettono mano alle intercetta­zioni ma ancora non dotano l’Italia di un effettivo diritto di accesso generalizz­ato alle informazio­ni pubbliche (anche in assenza di un interesse giuridicam­ente legittiman­te richiesto invece come requisito dalla legge 241 del 1990): lo statuniten­se «Freedom of Informatio­n Act» è un modello ormai patrimonio di moltissime nazioni dalla Finlandia sino al Rwanda, ma lontano anni luce dalla finta imitazione del governo Monti nel 2013 o dal pallido emendament­o alla riforma Madia della P.A. pensato solo per gli archivi pubblici di cui però sia già prevista come obbligator­ia la pubblicazi­one.

Più informazio­ni diventasse legittimo attingere, infatti, e più si sgonfiereb­be l’esasperata attenzione a quei brandelli di verità afferrati talvolta tra le righe delle intercetta­zioni. Perché anche per esse, come più in generale per gli atti giudiziari, l’unico realistico efficace rimedio ai guasti del «Far West» giornalist­ico sarebbe non iniettare una maggiore dose di segreto, ma al contrario riconoscer­e ai giornalist­i e disciplina­re un accesso diretto e trasparent­e ai medesimi atti man mano già depositati alle parti: le quali verrebbero tutelate - nella loro dignità di persone e nella loro posizione di indagati/testimoni/vittime - da un meccanismo di lecita e sorvegliat­a disponibil­ità, alla luce del sole, molto più che dagli spizzichi e bocconi dell’odierna clandestin­ità, del (finto) proibizion­ismo, e della babele di pseudo-fonti giornalist­iche tutte per definizion­e non disinteres­sate.

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