Xi Jinping gioca le sue carte negli Usa Dai repubblicani fuoco di sbarramento
Il leader cinese, indebolito in patria, punta sul viaggio per riaffermarsi come uomo forte
PECHINO Come cominciare meglio la visita negli Stati Uniti che con un’intervista al Wall Street Journal”, nella quale il presidente Xi Jinping promette di proseguire sulla rotta delle riforme economiche di mercato e si dice determinato a combattere il cyber spionaggio e gli attacchi degli hacker? Peccato solo che il quotidiano Usa sia oscurato dalla censura in Cina, come decine di altri siti da Google a Twitter. L’intervista al giornale Usa invisibile sul web cinese è una contraddizione, una delle tante nel rapporto tra Pechino, Washington e il resto della comunità internazionale.
Ieri Xi è arrivato ieri a Seattle, prima tappa della sua visita di Stato che lo porterà alla Casa Banca il 24 e 25 e poi al Palazzo di Vetro dell’Onu fino al 28. E da giorni le fonti cinesi assicurano che la missione sarà un successo. Mentre la stampa americana pubblicava indiscrezioni sulla linea dura che avrebbe accolto il capo dello Stato comunista e su sanzioni imminenti, in quella di Pechino comparivano titoli e analisi di segno opposto: «Xi rafforzerà la fiducia tra i due Paesi», «Xi sottolinea l’armonia delle relazioni tra due grandi potenze». Com’è noto, in diplomazia si può benissimo mentire: molti analisti pensano che il leader cinese, indebolito in patria dal rallentamento dell’economia, voglia (e debba) sfruttare il viaggio per riaffermarsi come «uomo forte».
Il Congresso di Washington e i candidati repubblicani alla presidenza insistono nel pretendere che Barack Obama alzi la voce con i cinesi. Secondo Donald Trump, invece che un banchetto alla Casa Bianca, Xi meriterebbe solo un hamburger da McDonald’s, perché «i cinesi vogliono affamare i bravi cittadini americani». Il senatore Tom Cotton dice che se Obama fosse stato cinese «sarebbe in carcere come cristiano e avvocato dei diritti civili, non farebbe festa con Xi».
È intervenuta Susan Rice, consigliera per la sicurezza della Casa Bianca, per chiedere di non farsi disorientare dalle troppe dichiarazioni, ma anche per ricordare con forza che quella per il cyber spionaggio cinese «non è una preoccupazione da poco, per gli Stati Uniti è una questione grave di sicurezza economica e nazionale».
I politologi hanno ripreso a parlare della «Trappola di Tucidide»: il conflitto inevitabile tra una potenza in fase calante e una emergente. Però ora anche la Cina soffre per il rallentamento della sua economia. Abbiamo imparato a temere il contagio della bolla alla Borsa di Shanghai, la svalutazione dello yuan: gli economisti avvertono che la Cina potrebbe esportare deflazione e recessione. E si parla di una nuova teoria: il «Dilemma di Riccioli d’oro», presa dalla favola della bambina che ignorando gli estremi (grande o piccolo, caldo o freddo), deve scegliere la via di mezzo, quella «giusta».
Ora negli Stati Uniti-Riccioli d’oro (ma anche nel resto del mondo globalizzato) si è insinuata la nuova preoccupazione: che l’unica situazione peggiore di una Cina che abbia troppo successo economico sia una Cina che non abbia abbastanza successo.
Con queste premesse, Xi ha portato a Seattle una delegazione di 15 capi di aziende cinesi che insieme capitalizzano un trilione di dollari (da Alibaba a Tencent, Baidu, Lenovo alle grandi banche statali). Visiterà la Boeing che vuole aprire un impianto in Cina e cenerà con Bill Gates. I negoziatori dei due Paesi sono più vicini alla firma del Bit: il Bilateral Investment Treaty, che sarebbe storico perché garantirebbe i reciproci investimenti in settori chiave, come tecnologia e servizi. Obama e Xi potrebbero anche sottoscrivere una prima intesa di disarmo nel cyberspazio.
Restano le accuse per il protezionismo cinese, lo spionaggio industriale e il furto di proprietà intellettuale, la costruzione di basi militari nelle isole artificiali del Mare cinese del Sud. E i dubbi su Tucidide e Riccioli d’oro.