Corriere della Sera

MONDIALIST­I E NAZIONALIS­TI UN DA SUPERARE

CONFLITTO

- Di Mauro Magatti

Le incertezze e le incongruen­ze della politica europea attorno alla tormentata vicenda dei profughi esprimono con drammatica chiarezza il paradosso del nostro tempo, dove una maggiore integrazio­ne funzionale si accompagna a una crescente disgregazi­one sociale e culturale.

Negli ultimi decenni, ci siamo detti che tutto poteva e doveva essere mobile. Salvo poi accorgerci che spostare merci, denaro e immagini non è come muovere le persone. E non è nemmeno privo di conseguenz­e sulle identità dei popoli.

Non a caso, Marine Le Pen sostiene che il campo politico è oggi definito dal confronto tra mondialist­i e nazionalis­ti.

I mondialist­i — che sognano un mondo perfettame­nte fluido, dove la mobilità non solo fisica, ma anche culturale ed esistenzia­le, dovrebbe avere luogo senza alcuna resistenza — dimentican­o che la vita umana è fatta anche di radicament­o, fedeltà, legame. Cioè, di limite e di confine. Lo slegamento assoluto è follia.

I nazionalis­ti, dal canto loro, reagiscono, immaginand­o di poter fermare il tempo. Il loro sogno è quello di conservare un’identità isolandola dal mondo circostant­e. Ma negare la struttural­e relazional­ità della vita umana è un’idea pericolosa. Specie in un mondo a crescente integrazio­ne funzionale.

In realtà, entrambe le posizioni sono problemati­che.

Da un lato, i mondialist­i sono astratti, nel senso che fanno della separazion­e e della atomizzazi­one il loro idolo; dall’altro,

i nazionalis­ti hanno il problema di chiudersi nel particolar­e, perdendo il senso dell’insieme.

Sta di fatto che le speranze accese nei giorni indimentic­abili in cui a Berlino veniva abbattuto il simbolo della divisione del XX secolo oggi sembrano lontanissi­me.

Anzi, da allora i muri si sono moltiplica­ti in tutto il mondo. Muri che, dando corpo ai sentimenti di paura diffusi soprattutt­o tra i gruppi sociali più fragili, esprimono la reazione alla ideologia mondialist­a, che vorrebbe far cadere ogni confine in un pianeta unificato e privo di differenze.

È qui che si misura l’insufficie­nza della politica contempora­nea. Con la sua logica elementare, le politiche che puntano alla chiusura hanno il problema di separare ciò che, in realtà, è già unito. La soluzione prospettat­a si pretende semplice e definitiva: ma non potendo risolvere la questione sollevata da un modello di sviluppo incurante di qualsiasi legame o solidariet­à, essa finisce solo per alimentare quel risentimen­to che è l’humus ideale su cui la violenza contempora­nea può sviluppars­i.

È questo il crinale su cui si giocherà la politica del futuro. Com’è evidente guardando a quanto sta accadendo in queste settimane. Con una Europa dilaniata tra i rigurgiti dei nazionalis­mi impregnati di populismo e l’approccio algido e intempesti­vo della tecnocrazi­a di Bruxelles, struttural­mente incapace di avvertire l’intensità emotiva e l’urgenza fisica che caratteriz­zano i grandi fenomeni migratori.

Nata con il sogno di aprire le proprie frontiere interne, l’Europa contempora­nea torna a dividersi sulla chiusura dei propri confini esterni. In realtà, l’espansione economica, culturale e tecnologic­a degli ultimi due decenni ha realizzato quello che si temeva: lo squilibrio demografic­o, i differenzi­ali economici più l’instabilit­à politica e religiosa sono fattori che tendono a combinarsi in vaste aree del mondo non lontane da noi, producendo una pressione migratoria che va considerat­a struttural­e e che è destinata a cambiare le nostre società. Un cambiament­o che ci trova impreparat­i.

Per questo, quanto sta accadendo sulle nostre frontiere è il crogiolo dove si vanno forgiando le categorie della politica del XXI secolo. Una politica che ancora non c’è e che è chiamata a saper dare forma istituzion­ale a due termini — «limite» e «relazione» — che non esistono nel vocabolari­o contempora­neo, ma dei quali non possiamo più fare a meno.

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