MONDIALISTI E NAZIONALISTI UN DA SUPERARE
CONFLITTO
Le incertezze e le incongruenze della politica europea attorno alla tormentata vicenda dei profughi esprimono con drammatica chiarezza il paradosso del nostro tempo, dove una maggiore integrazione funzionale si accompagna a una crescente disgregazione sociale e culturale.
Negli ultimi decenni, ci siamo detti che tutto poteva e doveva essere mobile. Salvo poi accorgerci che spostare merci, denaro e immagini non è come muovere le persone. E non è nemmeno privo di conseguenze sulle identità dei popoli.
Non a caso, Marine Le Pen sostiene che il campo politico è oggi definito dal confronto tra mondialisti e nazionalisti.
I mondialisti — che sognano un mondo perfettamente fluido, dove la mobilità non solo fisica, ma anche culturale ed esistenziale, dovrebbe avere luogo senza alcuna resistenza — dimenticano che la vita umana è fatta anche di radicamento, fedeltà, legame. Cioè, di limite e di confine. Lo slegamento assoluto è follia.
I nazionalisti, dal canto loro, reagiscono, immaginando di poter fermare il tempo. Il loro sogno è quello di conservare un’identità isolandola dal mondo circostante. Ma negare la strutturale relazionalità della vita umana è un’idea pericolosa. Specie in un mondo a crescente integrazione funzionale.
In realtà, entrambe le posizioni sono problematiche.
Da un lato, i mondialisti sono astratti, nel senso che fanno della separazione e della atomizzazione il loro idolo; dall’altro,
i nazionalisti hanno il problema di chiudersi nel particolare, perdendo il senso dell’insieme.
Sta di fatto che le speranze accese nei giorni indimenticabili in cui a Berlino veniva abbattuto il simbolo della divisione del XX secolo oggi sembrano lontanissime.
Anzi, da allora i muri si sono moltiplicati in tutto il mondo. Muri che, dando corpo ai sentimenti di paura diffusi soprattutto tra i gruppi sociali più fragili, esprimono la reazione alla ideologia mondialista, che vorrebbe far cadere ogni confine in un pianeta unificato e privo di differenze.
È qui che si misura l’insufficienza della politica contemporanea. Con la sua logica elementare, le politiche che puntano alla chiusura hanno il problema di separare ciò che, in realtà, è già unito. La soluzione prospettata si pretende semplice e definitiva: ma non potendo risolvere la questione sollevata da un modello di sviluppo incurante di qualsiasi legame o solidarietà, essa finisce solo per alimentare quel risentimento che è l’humus ideale su cui la violenza contemporanea può svilupparsi.
È questo il crinale su cui si giocherà la politica del futuro. Com’è evidente guardando a quanto sta accadendo in queste settimane. Con una Europa dilaniata tra i rigurgiti dei nazionalismi impregnati di populismo e l’approccio algido e intempestivo della tecnocrazia di Bruxelles, strutturalmente incapace di avvertire l’intensità emotiva e l’urgenza fisica che caratterizzano i grandi fenomeni migratori.
Nata con il sogno di aprire le proprie frontiere interne, l’Europa contemporanea torna a dividersi sulla chiusura dei propri confini esterni. In realtà, l’espansione economica, culturale e tecnologica degli ultimi due decenni ha realizzato quello che si temeva: lo squilibrio demografico, i differenziali economici più l’instabilità politica e religiosa sono fattori che tendono a combinarsi in vaste aree del mondo non lontane da noi, producendo una pressione migratoria che va considerata strutturale e che è destinata a cambiare le nostre società. Un cambiamento che ci trova impreparati.
Per questo, quanto sta accadendo sulle nostre frontiere è il crogiolo dove si vanno forgiando le categorie della politica del XXI secolo. Una politica che ancora non c’è e che è chiamata a saper dare forma istituzionale a due termini — «limite» e «relazione» — che non esistono nel vocabolario contemporaneo, ma dei quali non possiamo più fare a meno.