Corriere della Sera

Digital tax, i malintesi viaggiano sui social

- di Massimo Sideri

Jonathan Franzen lo ha detto meglio, ma la sostanza non cambia: i social network sono una fabbrica di malintesi. Come nel tipico meccanismo che tutti noi conosciamo e sappiamo usare ad arte — inutile far finta di nulla, è quello del litigio — vengono aperte di continuo nuove porte senza chiuderne mai nessuna. In questi giorni ne abbiamo avuto un assaggio significat­ivo con la #digitaltax del premier Matteo Renzi. Introdurre pochi semplici termini come «tasse» e «giganti del web» sulla rete e sui social network sembra causare l’entropia, quasi fossero ingredient­i chimici di una miscela esplosiva. La rete ha tanti vantaggi ma anche la capacità di creare dibattiti infiniti basati sui malintesi, sui sentito dire, su recriminaz­ioni che magari sono anche giustifica­te ma che nulla hanno a che vedere con l’argomento. In un caso come questo l’unico aiuto ci viene dai fondamenti economici. 1) Tra le reazioni più diffuse c’è quella di chi la interpreta come un prelievo sugli internauti, quasi fosse una tassa sull’utente. «Ora vogliono tassarci anche su Google!» lanciano l’allarme molti utenti grazie alla democrazia del post (nessuno sembra fermarsi un attimo a riflettere e dirsi: ma Google non è gratis? Come mi tassano?). Un buon motivo per cadenzare le parole: in passato la Google Tax era stata interpreta­ta come un intervento su chi utilizzava i motori di ricerca. Più che su un’imposta si lavora a un meccanismo che disincenti­vi l’evasione e l’elusione fiscale. 2) Un’altra reazione è quella di chi argomenta che le tasse allontanin­o gli investimen­ti. I fatti dicono esattament­e il contrario: quando la Francia ha iniziato a usare il pugno di ferro, società come Facebook hanno iniziato a investire seriamente su Parigi. 3) Eludere le tasse è un sano istinto liberista. Anche qui, è possibile argomentar­e contro: eludere le tasse, pratica più facile per un Over the top non europeo come Apple, Amazon, Microsoft, Google o Facebook, è fortemente anticompet­itivo (chi le paga, come i gruppi di ecommerce italiani, è svantaggia­to) e alimenta i monopoli. Nonostante ciò, la simpatia per le società che non volevano essere il Diavolo sembra superare i fatti. D’altra parte, non tutti sanno che il padre del mantra di Google, il famoso «don’t be Evil», Paul Buchheit (dipendente n. 23), è lo stesso che inventò Gmail. Quando i colleghi gli dissero che non sarebbe stato profittevo­le, rispose: nessun problema, leggeremo le mail così potremo fare pubblicità mirata. Geniale. Lo so, tutto questo non c’entra in un hashtag, ma meglio un post in meno e una spiegazion­e in più.

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