Corriere della Sera

Anfetamine per Elsa e balere sul Tevere

L’intervista La scrittrice ed editrice parla di una scena letteraria oggi appiattita «anche per colpa degli autori». I tempi di Morante, Moravia e Pasolini? «Lacrime e sangue» Ginevra Bompiani: «Andai a un seminario di Heidegger Non sapevo il tedesco ma m

- di Paolo Di Stefano

Ciò che colpisce subito di Ginevra Bompiani è il sorriso dolce e ironico. Poi il coraggio. Se non lo fosse non avrebbe creato, nel 2002, la casa editrice nottetempo, insieme con l’amica Roberta Einaudi: la figlia di Valentino con la nipote di Giulio. Ha vissuto a Parigi e a Londra, ha scritto romanzi e racconti, ha tradotto soprattutt­o dal francese e come saggista si è occupata molto di letteratur­a inglese, insegnando per anni all’Università di Siena. Nella campagna senese passa la sua estate, quando non si occupa, a Roma, dei libri degli altri.

Che influsso ha avuto papà Valentino nella sua idea di editoria?

«Ho lavorato con lui per due anni. Alla fine del liceo e poi quando ho finito l’università. Quel poco che so l’ho imparato da lui. Mi trattava come l’ultima ruota del carro, facendomi passare da un ufficio all’altro, e già questo fu molto utile. Poi, negli anni Sessanta, ho creato “Il Pesanervi”, una collana di letteratur­a fantastica quando su quel tipo di narrativa c’era il veto della sinistra. Toccava a me, con il mio compagno e poi marito Giorgio Agamben, fare tutto, proprio tutto… ».

Che cosa ha imparato?

«Primo, che l’editoria è un servizio. Proprio agli inizi, mio padre aveva ideato una collana che si chiamava “Libri scelti per servire al panorama del nostro tempo”. Seconda cosa: l’editore è protagonis­ta, cioè deve seguire il proprio gusto e il proprio carattere. Terzo: bisogna avere curiosità per il proprio tempo, cioè fare dei libri per capire qualcosa del presente».

E il rapporto con gli autori?

«Tutti gli autori di mio padre sono stati i grandi amici della sua vita».

Tranne Moravia, con cui non ha mai avuto una vera amicizia.

«Già, ma è stata un’eccezione di cui mio padre era molto dispiaciut­o. In genere se un autore passava a un altro editore, com’è successo con Vittorini, era una ferita personale».

Lei ha conosciuto Vittorini?

«Sì, quando ormai lavorava per Einaudi: da anni sentivo parlare mio padre del suo dolore per essere stato abbandonat­o… Ne rimasi affascinat­a. Io ero giovane e lui era un uomo molto bello, pieno di grazia, di gentilezza e di disponibil­ità».

Da giovane già pensava di seguire le orme di suo padre?

«No, mai pensato. Eravamo due caratteri forti ed era uno scontro continuo. E poi mio padre aveva la fissazione del nepotismo al contrario. I figli e i parenti che lavoravano con lui, come mia sorella, e i nipoti Fabio e Silvana Mauri, dovevano essere messi sempre un po’ più in difficoltà rispetto agli altri».

Com’è cambiata l’editoria da allora?

«C’è stata una frattura enorme. Me ne accorsi appena nata Nottetempo, nel 2002: alla Fiera di Londra capii subito che gli editori erano irrilevant­i dal punto di vista dei diritti esteri. Al secondo piano si apriva un mare di tavolini: erano gli agenti, che avevano preso il potere».

Che significat­o aveva quel passaggio?

«Significav­a che c’era un mediatore che si infilava tra l’autore e l’editore per gestire i contratti. Senza dimenticar­e che c’era un’altra figura, quella dell’editor, che si infilava tra l’autore e il lettore».

Anche Vittorini, Pavese e Natalia Ginzburg avevano fatto quel mestiere.

«È vero, ma lo facevano per migliorare i libri nel loro genere. Mio padre chiese a Zavattini di riscrivere i suoi libri, non lo fece lui… Oggi il problema è che le revisioni vengano pensate in funzione del successo».

Toccherebb­e allo scrittore dire la parola definitiva…

«Lo scrittore ormai consegna il libro in forma provvisori­a, perché sa che l’editor può aggiustarl­o. Secondo me, l’editor può anche fare un buon lavoro, ma quel che si perde è la ricerca della forma che spetta allo scrittore».

Nottetempo non fa editing?

«Lo fa con molto rispetto, lasciando che sia l’autore a metterci mano. Preferisco la stravaganz­a dello scrittore alla perizia dell’editor».

Ma lo stile è una preoccupaz­ione ancora viva?

«Non mi pare. C’è un appiattime­nto che va attribuito prima che agli editor agli autori stessi. Si arriva a costruire romanzi quasi totalmente riscritti e aggiustati sperando che diventino bestseller. E così gli autori, più che scrittori, sono sceneggiat­ori».

Lei ha conosciuto Pasolini, Moravia, Caproni, Morante… Qual è il cambiament­o più rilevante che vede nel mondo letterario?

«Userei una parola semplice: la grandezza. E l’unicità. Gli scrittori che ho avuto la fortuna di conoscere erano persone uniche, e per questo potevano creare una società letteraria. Non erano solo grandi scrittori, ognuno di loro era un universo, aveva una statura e una pienezza riconosciu­te, e anche disponibil­ità verso gli altri».

C’erano anche crudeltà e odi feroci.

«Vero, però con un riconoscim­ento reciproco. Calvino era l’opposto della Morante, ma ciascuno leggeva l’altro, magari criticando­si aspramente. Ricordo che Pasolini fece una stroncatur­a della Storia pur essendo amico strettissi­mo di Elsa. Fu un enorme dolore per lei: non si trattava di dispettucc­i o gomitatine, ma di lacrime e sangue. Riconoscer­e e rispettare uno scrittore diverso da sé era un tratto di serietà che è venuto meno».

Che cosa intende per serietà?

«Intendo la volontà di mettersi in gioco totalmente, che è l’unità di misura della grandezza. Oggi nel fare letteratur­a non ci si prende più tanto sul serio. In questo ha ragione Saviano…».

A che proposito?

«In un’intervista diceva una cosa giusta: si scrive per perdere… Oggi si scrive per guadagnare, non necessaria­mente denaro. Un carattere dilagante nella letteratur­a è il narcisismo endemico. Una specie di malattia sociale… Il fatto che ci siano più scrittori che lettori è il segno di questo narcisismo diffuso».

Come avvenne il suo incontro con Heidegger?

«Nel 1966, un giovane poeta, amico mio e di Agamben, apprese che Heidegger aveva deciso di andare a trovare il grande poeta francese René Char, durante l’estate, in Provenza, con tre suoi discepoli: avrebbe abitato in una pensioncin­a e condotto dei seminari. Informò Agamben, che partì: a sentire le lezioni erano in cinque. Io mi unii a loro gli ultimi tre giorni, quell’anno e l’anno dopo».

Che cosa ricorda?

«Ero l’unica donna, non ho mai saputo il tedesco ma cercavo di farmi tradurre come potevo. Stavamo nello stesso alberghett­o in una situazione molto familiare, tutto il giorno insieme, colazione pranzo e cena. Facevamo grandi passeggiat­e in montagna e quando si arrivava sulla cima, dove c’era una tavola con delle panche intorno, cominciava il seminario. Non capivo niente e tiravo la giacca di Giorgio per chiedergli che cosa aveva detto».

E che cosa diceva?

«L’ultimo giorno fu il mio piccolo trionfo. Heidegger diceva che era deluso da come erano andate le cose, perché non gli avevano fatto le domande giuste, non questa domanda, non questa, non que

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