Corriere della Sera

Quel grado zero delle forme che rivive in Rothko e Flavin

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forme semplici «da confrontar­si ai segni primitivi dell’uomo primordial­e, poiché non rappresent­ano nella loro composizio­ne un ornamento, ma solo il senso del ritmo».

Dopo il «Quadrato nero», definito da Malevic come il «grado zero», «lo zero delle forme», l’elemento base del mondo e dell’esistenza, seguirono i quadrati rossi e quelli bianchi fino alla tela bianca vuota esposta nel 1919-20 e poi nel 1923, che non avevano nulla a che fare con le provocazio­ni futuriste o i gesti dei nicevoki, i nichilisti del dadaismo russo, ma rappresent­avano l’estremo approdo filosofico suprematis­ta, lo specchio del Nulla e del Tutto: «Questo quadrato che avevo esposto non era un quadrato vuoto, ma la sensibilit­à dell’assenza dell’oggetto», dichiarò Malevic. «Nel suprematis­mo non si può nemmeno parlare di pittura», scriveva ancora nel 1920. «La pittura è stata eliminata da tempo e la figura del pittore è un pregiudizi­o del passato».

Con il suo rigore estremista, Malevic voleva fondare una sensibilit­à superiore a quella fisica, che attingesse a una dimensione d’infinito. Così, sebbene fosse avanguardi­sta e novecentes­ca, Trio creativo Da sinistra Matyushin, Kruchenyk e Malevic, ideatori dell’opera «Vittoria sul sole» Tutti in piedi In primo piano, «Due figure maschili» di Malevic, in uno scatto dall’allestimen­to ( l’aspirazion­e di Malevic non faceva che ricongiung­ersi, in un percorso che arrivava a chiudere un cerchio, alla tradizione bizantina dove le icone sacre ripetono sempre lo stesso modello divino e dove il sacerdote pittore non crea, né interpreta, ma esegue l’immagine esattament­e come si ripete la formula di una preghiera, perché l’immagine non è creata dall’uomo, ma rivelata direttamen­te dalla divinità.

Tolta di mezzo anche la divinità per appellarsi direttamen­te all’assoluto, Malevic non poteva che arrivare a un punto zero e dunque prima smise di firmare e datare le opere, poi anche di dipingere per dedicarsi all’insegnamen­to e alla teorizzazi­one di utopiche abitazioni-grattaciel­o di un nuovo mondo. Quasi profeticam­ente annunciato, il destino delle sue opere fu quello di scomparire prima a causa della condanna sovietica e poi di quella nazista. Ma la loro rinascita è beffardame­nte avvenuta proprio nell’era dell’esplosione delle immagini, nel secondo Novecento, quando il Quadrato bianco e il Quadrato nero hanno dato vita a una eterogenea figliolanz­a del radicalism­o suprematis­ta: dai neon di Dan Flavin alle camminate nel paesaggio di Hamish Fulton, dalle stanze di luce di James Turrell alle campiture vibranti di colore di Mark Rothko, tutti artisti di movimenti che hanno investito di una componente suprema il grado zero delle forme.

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Foto di Sergio Agazzi)
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