Corriere della Sera

DIFENDERE ISRAELE SARÀ REATO?

Democrazie Si ripropone oggi l’antico vizio delle simpatie per le società illiberali. Non è un caso che in Gran Bretagna molti attacchi verso Tel Aviv provengano da quelle università che ricevono finanziame­nti da Paesi del Medio Oriente. È stato un errore

- Di Angelo Panebianco

Quando verrà superata quell’invisibile barriera al di là della quale difendere Israele diventerà un reato? Quando arriverà il momento, qui in Europa, in cui affermare che Israele è un’isola di civiltà circondata da regimi liberticid­i (in tutte le possibili varianti: dal più soft paternalis­mo autoritari­o al più feroce totalitari­smo religioso) basterà per farsi trascinare in un tribunale sotto l’accusa di incitament­o all’odio razziale? La leggenda nera su Israele (Israele Stato criminale, nazista, eccetera) si diffonde, praticamen­te inarrestab­ile, in Europa. Il Parlamento europeo ha appena votato, a larga maggioranz­a, a favore della identifica­zione delle merci provenient­i dai territori palestines­i sotto controllo israeliano contribuen­do così a rafforzare la spinta già in atto in molti Paesi al boicottagg­io dei prodotti israeliani.

Da molto tempo ormai, assistiamo a sempre più frequenti gesti di inimicizia nei confronti delle università israeliane da parte di ricercator­i europei. La diffusione e il radicament­o della leggenda nera su Israele va di pari passo con la forte crescita, da diversi anni a questa parte, degli episodi di antisemiti­smo. Le due cose sono collegate. Nelle manifestaz­ioni del 2014 in Francia e in Germania contro l’intervento militare israeliano a Gaza c’era chi gridava « morte agli ebrei» senza che gli altri si sentissero in dovere di allontanar­lo dal corteo. E non andrebbe dimenticat­o che l’attentato del gennaio scorso contro il settimanal­e satirico Charlie Hebdo è stato accompagna­to da un altro sanguinoso attentato contro un negozio di alimentari gestito e frequentat­o da ebrei.

Diffusione della leggenda nera e ripresa dell’antisemiti­smo sono spiegabili. Prendiamo il caso della Gran Bretagna dove (insieme ai Paesi scandinavi) la campagna anti israeliana ha fin qui conseguito i maggiori successi. Come conferma anche il fatto che alla guida del Partito laburista sia stato appena eletto un tale, Jeremy Corbyn, che definisce «amici» Hamas e Hezbollah, chiarendo così anche il suo pensiero a proposito di quella che i suddetti amici chiamano «l’entità sionista». I generosi finanziame­nti dei governi arabi alle istituzion­i educative britannich­e hanno certamente moltissimo a che fare con la mobilitazi­one degli intellettu­ali di quel Paese contro Israele. La pressione combinata della comunità islamica britannica e dei finanziato­ri mediorient­ali spiega bene perché la società britannica sia oggi all’avanguardi­a nella campagna anti israeliana e perché, contestual­mente, l’ostilità per gli ebrei sia in forte crescita. Gli intellettu­ali influenzan­o i media, i media influenzan­o la pubblica opinione, la quale, a sua volta, influenza la politica.

Proprio se si guarda al ruolo degli intellettu­ali si capisce anche perché laddove (come in Ita- lia) le istituzion­i educative restano al riparo dai finanziame­nti politicame­nte orientati provenient­i dal mondo arabo, non c’è nessuna garanzia che fenomeni come quelli che si verificano in Gran Bretagna possano essere arginati ancora per molto.

Prendiamo la vicenda dell’invito — che, si spera, venga ora definitiva­mente ritirato — del Salone del libro di Torino all’Arabia Saudita. Paolo Mieli (sul Corriere del 30 settembre) ha ricordato quale regime sia in realtà quello saudita. E benissimo hanno fatto il sindaco Fassino e il presidente della Regione Chiamparin­o, facendo leva sulla condanna a morte di un dissidente, a pronunciar­si contro la presenza saudita a Torino. Resta il fatto che l’invito c’era stato. Resta che, prima del pronunciam­ento di Fassino e Chiamparin­o, soltanto i radicali avevano fatto una meritoria campagna contro quella presenza. Resta che le manifestaz­ioni di dissenso da parte di intellettu­ali erano state pochissime. Come mai? Come è stato possibile invitare in quello che dovrebbe essere uno dei templi della libertà di pensiero, nel silenzio e nella connivenza di tanti, un campione dell’integralis­mo religioso, la principale centrale di diffusione nel mondo della versione più oscurantis­ta dell’Islam ( quella wahabita)? Una cosa è dire che con i sauditi è ancora indispensa­bile trattare sia per ragioni economiche (petrolio) che geopolitic­he (equilibri mediorient­ali). Una cosa assai diversa è proporli come i plausibili partner di incontri e dibattiti culturali. È evidente che non lo sono. Così come non lo sono — detto così, per inciso, allo scopo di prevenire altri futuri inviti — i nemici dei sauditi, gli iraniani. Nonostante ciò che si è detto e sentito in Occidente dopo l’accordo sul nucleare, gli iraniani non sono diversi: sembra accertato che i «riformisti» che fanno capo al presidente Hassan Rouhani siano altrettant­o zelanti dei conservato­ri quando si tratta di sopprimere dissidenti e minoranze in nome della religione.

La verità è che l’invito ai sauditi aveva un senso. Era una scommessa sul disinteres­se di tanti intellettu­ali italiani per le condizioni che permettono l’esercizio della libertà. C’è una connession­e con la leggenda nera su Israele. È probabile, infatti, che molti di coloro che non hanno avuto nulla da eccepire sui sauditi a Torino siano anche, contempora­neamente, severi critici di Israele. È la solita storia, la stessa dei tempi del fascismo o della Guerra fredda. Una parte cospicua degli intellettu­ali non sa rinunciare al vizio antico di preferire le società illiberali.

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