Corriere della Sera

SE LA SINISTRA VA IN GUERRA

- Di Pierluigi Battista

Le regole d’ingaggio e i tormenti della sinistra quando l’Italia va in guerra.

«Senza se e senza ma», si usava dire con espression­e che voleva alludere a una ferrea volontà di coerenza. Tuttavia, moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra, il modello di comportame­nto della sinistra nella Seconda Repubblica nei confronti della nostra partecipaz­ione alle guerre, anzi, pudicament­e, « missioni di pace » , o « peacekeepi­ng» per stare nei consessi internazio­nali. Per colpa delle «regole di ingaggio», per esempio, il governo Prodi rischiava ogni volta di smottare e venir giù. Ci si impratichì con termini come «caveat», che poi sarebbero i codicilli che avrebbero dovuto regolare le modalità di azione o non-azione delle nostre truppe in Afghanista­n, per la formulazio­ne dei quali c’era sempre un senatore della sinistra «radicale», Turigliatt­o in primis, disposto a far cadere il governo. Bisognava starci, ma in modo limitato, circoscrit­to, con «regole d’ingaggio» rigidissim­e. Come sta avvenendo in questi giorni. Nella comunità internazio­nale, ma pur sempre con distinguo, codicilli, caveat di impossibil­e oltrepassa­mento. In Iraq, ma non in Siria, anche se l’Isis sta sia in Siria che in Iraq. E con la sinistra «radicale», o chi ne fa le veci come Beppe Grillo in questa occasione, a gridare contro la «subalterni­tà» del governo italiano ai dettami della Nato.

C’è sempre un contorcime­nto, una precisazio­ne una condizione nel rapporto tra la sinistra e la guerra guerreggia­ta. Quando è un no secco, come nell’Iraq del 2003, allora è un no secco. Ma il no non diventa mai un sì squillante, piuttosto sempre un nì. Come nella guerra del Kosovo. Il governo D’Alema, con l’appoggio dei ribaltonis­ti che attraverso Francesco Cossiga trasmigrar­ono dalla destra all’Ulivo, era ovviamente favorevole alla guerra contro Milosevic. Non la chiamavano guerra, la chiamavano «ingerenza umanitaria», ma comunque ci stavano. Ma mai del tutto, sempre tenendo un piede sull’uscio. D’accordo con il sostegno delle basi in Italia da dove sarebbero partiti i raid destinati a colpire Belgrado. Ma senza partecipar­e direttamen­te ai raid. Poi, ogni volta che i raid colpivano duro, subito arrivava dall’Italia la proposta di un rapido cessate il fuoco. Eravamo a pieno titolo nella guerra, ma non potevamo dirlo. Una sinistra che citava la sacralità della Costituzio­ne a ogni passo non se la sentiva di sfidare troppo la lettera dell’articolo 11 della Carta Costituzio­nale, quello che ripudiava la guerra come soluzione dei conflitti. Nella guerra, ma con tanti se e tanti ma.

La sinistra italiana e la guerra

si erano già fronteggia­te nel 1991, quando la Nato decise di scatenare la guerra del Golfo per punire Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait nell’agosto del 1990. Era in corso la trasformaz­ione del Pci in Pds e l’atto primo del partito di Occhetto non poteva essere il sì a una guerra che avrebbe dovuto garantire il nuovo «ordine internazio­nale» scaturito dalla caduta di Berlino e dalla fine della guerra fredda per estinzione dell’Urss, uno dei due contendent­i. Ma una parte della sinistra, quella di matrice socialista, ma anche quella di Vittorio Foa, vedeva in quel conflitto baciato dall’Onu addirittur­a una riedizione della guerra civile spagnola con le sue Brigate internazio­nali chiamate a colpire il nuovo tiranno Saddam Hussein. Poi, dopo tanti anni, e dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, rinasce la questione con la spedizione di truppe italiane a Kabul. All’inizio, sull’ondi da emotiva di quell’attentato storico, la vista delle torri che crollavano, il cuore dell’Occidente colpito a morte, la sinistra non se la sentì di mettere ostacoli. Sottolinea­va che quella guerra doveva essere condotta nel nome del venerato «multilater­alismo», che doveva essere certificat­a e vidimata come un’iniziativa «sotto l’egida dell’Onu», ma insomma le distinzion­i non potevano superare una certa soglia pena l’accusa di fare ostruzioni­smo in un’emergenza tanto drammatica del mondo in cui l’obiettivo numero uno era la sconfitta dei talebani e di Osama Bin Laden. Ma negli anni successivi la guerra dei caveat rimpiazzò quella della guerra vera: e ogni volta i finanziame­nti della missione italiana diventavan­o la scintilla di uno psicodramm­a. Sempre dentro, ma anche un po’ fuori. In Iraq, ma non in Siria. Mille se e mille ma.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy