Corriere della Sera

La crudeltà della guerra tra dèi distratti e fantasmi

- di Franco Cordelli

Per Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad potrei usare in modo meno infelice, ossia meno sibillino, un’espression­e che usai la scorsa settimana per 887 di Robert Lepage. Scrissi che 887 era uno spettacolo brillante ma opaco. E che vuol dire? che volevo dire? Ciò che dico per Una tigre del Bengala: brillante nell’esecuzione, opaco nel significat­o. Tale e quale. Pure una differenza di fondo c’è. Mentre in 887 l’opacità era data da un accumulo di materiali (autobiogra­fici) di significat­o relativo o ovvio, in Una tigre del Bengala l’accumulo dei significat­i è eterogeneo e pretenzios­o: non c’è la storia di una singola persona, c’è la guerra (in Iraq), c’è il rapporto tra le diverse culture, c’è l’uomo nella sua stoltezza, c’è l’animale nella sua ferocia (che non è crudeltà), c’è la divinità, che nessuno sa cos’è.

L’autore di questo testo è Rajiv Joseph, nato nel 1974 a Cleveland e, di fatto, tipico scrittore contempora­neo, depositari­o per metà di una cultura e per metà di un’altra (indiana). Regista e interprete della commedia è Luca Barbaresch­i, che la presenta al nostro pubblico per inaugurare, più che la nuova stagione, una nuova storia dell’Eliseo di Roma. Lo si deduce dalla trasformaz­ione del teatro: alle pareti non vi sono le immagini di coloro che ne hanno fatto il prestigio, tutto è bianco, tutto è arioso e verrebbe da dire più aperto.

Eppure (credo) Barbaresch­i non si è proposto di cancellare un passato al quale lui stesso appartiene. Ha voluto sempliceme­nte ricomincia­re daccapo, s’era fatta troppa confusione. Ma purtroppo in po’ di confusione c’è proprio nella commedia di Rajiv Joseph. Provo a razionaliz­zare. Due marines sono di guardia allo zoo e alla tigre, chiusa in gabbia. Qui Barbaresch­i è l’attore picaresco che sappiamo, padrone di sé: fa su e giù dietro le sbarre, borbotta, filosofegg­ia. Ma una tigre è una tigre, appena le si offre l’occasione con un morso stacca la mano di uno dei suoi guardiani. L’altro, Kev (Andrea Bosca), la uccide. La tigre diventa il fantasma di se stessa. Kev impazzisce, arriverà a suicidarsi. Invece Tom (Denis Fasolo) sopravvive con una mano «bionica». Sopravvive? Non a lungo.

C’è di mezzo una pistola d’oro che è stata sottratta a uno dei figli di Saddam Hussein. Sono morti tutti e due, il fantasma di Uday va girando con in mano la testa del fratello. Nell’altro mondo, migliore del nostro, si continua a essere ciò che si era: si parla, si discute: la tigre più d’ogni altro. Nel nostro, la pistola continua il suo lavoro. Un giardinier­e, che ora fa il traduttore, la scarica contro Tom. Sembra la sintesi del romanzo Il caso Meursault dell’algerino Kamel Daoud, rovescio de Lo straniero di Camus.

Ora a uccidere il bianco è l’arabo: senza motivo, perché là c’è il deserto. Ma il nuovo killer, non dimentichi­amolo, è un giardinier­e. Non è egli, almeno un poco, lo strano Dio di tutti: dei finti-forti americani, degli infidi arabi, dei servili indiani, delle sagge benché feroci tigri e, infine, delle bellissime piante che coltiva? Tra gli altri interpreti ricordo Marouane Zotti e Hossein Taheri. La scena è di Massimilia­no Nocente.

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Il soldato ferito Una scena dello spettacolo tratto dal testo di Rajiv Joseph, finalista al Premio Pulitzer 2010

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