Bombe sull’Isis L’ipocrisia del dilemma etico
Si può legittimamente criticare un’alleanza internazionale decisa a combattere anche con mezzi militari il terrorismo islamico, o perché inadeguata o perché inopportuna. E si può naturalmente contestare la scelta dell’Italia di esserne parte a pieno titolo, a condizione ovviamente di non lamentarsi dopo del nostro scarso peso sulla scena internazionale. Quel che non si può fare è inventarsi una inesistente questione morale nel momento in cui sono mutate le condizioni sul terreno.
E ciò, con l’aggravarsi della minaccia del Califfato, suggerisce al governo di Roma di modificare le proprie regole d’ingaggio.
Cambierebbe qualcosa se, invece di fotografare gli obiettivi e indicare ai caccia alleati dove colpire, i Tornado dell’Aeronautica bombardassero direttamente le postazioni dell’Isis in Iraq, l’unico luogo nel quale chiarezza morale, legittimità politica e coerenza strategica non fanno a pugni? Dove, a differenza che in Siria, ci sono un solo nemico, un governo sovrano che ce lo chiede e un territorio ben circoscritto da bonificare?
La risposta è no, non cambierebbe nulla. Sul piano etico, perché non fa alcuna differenza con quanto facciamo già ora. E sul piano del rischio, perché anche adesso i nostri piloti devono mettere in conto l’ipotesi di essere intercettati e abbattuti e perché il territorio italiano non sarebbe più minacciato di quanto non lo sia già oggi.
Certo non cambierebbero radicalmente neppure gli equilibri sul terreno. Troppo esigua rimane infatti la dimensione complessiva delle operazioni anti-Isis rispetto alla vastità dell’area e all’entità del nemico: alcune decine di missioni al giorno in una regione grande più di metà della Germania. Per farsi un’idea, basti ricordare che nel 1999 in Kosovo, poco più grande dell’Umbria, la Nato impegnò per mesi oltre 500 velivoli in centinaia di azioni quotidiane. Fin troppo «evidente per sé» è la verità che solo una spedizione di terra in grande stile potrebbe sconfiggere i miliziani di al- Baghdadi, salvo poi, come osserva lo studioso americano Fareed Zakaria, dover pensare a gestire la «proprietà immobiliare» acquisita.
Ma il punto politico non cambia. E occorre essere conseguenti se si sceglie di stare nella coalizione contro la più grave minaccia all’Occidente da decenni, in nome di un interesse nazionale che l’onda dei profughi in fuga dalla regione dimostra plasticamente.
Ecco perché la bufera preventiva contro l’ipotesi di un cambio di passo in Iraq, scatenata dopo le rivelazioni del nostro giornale dagli stessi che una settimana fa avevano esaltato il decisionismo di Putin in Siria, odora d’ipocrisia, fa intravedere un basso calcolo politico, porta riconoscibile lo stigma dell’eterno ossimoro italiano.
È inutile poi denunciare lo scarso peso dell’Italia sulla scena internazionale o crocifiggere il governo per l’esclusione dai tavoli che contano, dall’Ucraina alla Siria: la credibilità internazionale si costruisce mattone dopo mattone. E per dirla tutta, se proprio ci teniamo a guidare l’attesa transizione che pur tra mille difficoltà si prepara in Libia, l’investimento incrementale sui Tornado in Iraq è logico e inevitabile. Dopo aver fatto tutti i passaggi necessari, quello parlamentare in primo luogo, come ha ribadito ieri nel forum al Corriere il ministro degli Esteri Gentiloni. La guerra, diceva Clemenceau, è cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei generali. Quando la diplomazia non basta più, una vera classe politica deve saper farsene carico. Con i vincoli, ma anche con la coerenza necessaria.