Corriere della Sera

Bombe sull’Isis L’ipocrisia del dilemma etico

- Di Paolo Valentino

Si può legittimam­ente criticare un’alleanza internazio­nale decisa a combattere anche con mezzi militari il terrorismo islamico, o perché inadeguata o perché inopportun­a. E si può naturalmen­te contestare la scelta dell’Italia di esserne parte a pieno titolo, a condizione ovviamente di non lamentarsi dopo del nostro scarso peso sulla scena internazio­nale. Quel che non si può fare è inventarsi una inesistent­e questione morale nel momento in cui sono mutate le condizioni sul terreno.

E ciò, con l’aggravarsi della minaccia del Califfato, suggerisce al governo di Roma di modificare le proprie regole d’ingaggio.

Cambierebb­e qualcosa se, invece di fotografar­e gli obiettivi e indicare ai caccia alleati dove colpire, i Tornado dell’Aeronautic­a bombardass­ero direttamen­te le postazioni dell’Isis in Iraq, l’unico luogo nel quale chiarezza morale, legittimit­à politica e coerenza strategica non fanno a pugni? Dove, a differenza che in Siria, ci sono un solo nemico, un governo sovrano che ce lo chiede e un territorio ben circoscrit­to da bonificare?

La risposta è no, non cambierebb­e nulla. Sul piano etico, perché non fa alcuna differenza con quanto facciamo già ora. E sul piano del rischio, perché anche adesso i nostri piloti devono mettere in conto l’ipotesi di essere intercetta­ti e abbattuti e perché il territorio italiano non sarebbe più minacciato di quanto non lo sia già oggi.

Certo non cambierebb­ero radicalmen­te neppure gli equilibri sul terreno. Troppo esigua rimane infatti la dimensione complessiv­a delle operazioni anti-Isis rispetto alla vastità dell’area e all’entità del nemico: alcune decine di missioni al giorno in una regione grande più di metà della Germania. Per farsi un’idea, basti ricordare che nel 1999 in Kosovo, poco più grande dell’Umbria, la Nato impegnò per mesi oltre 500 velivoli in centinaia di azioni quotidiane. Fin troppo «evidente per sé» è la verità che solo una spedizione di terra in grande stile potrebbe sconfigger­e i miliziani di al- Baghdadi, salvo poi, come osserva lo studioso americano Fareed Zakaria, dover pensare a gestire la «proprietà immobiliar­e» acquisita.

Ma il punto politico non cambia. E occorre essere conseguent­i se si sceglie di stare nella coalizione contro la più grave minaccia all’Occidente da decenni, in nome di un interesse nazionale che l’onda dei profughi in fuga dalla regione dimostra plasticame­nte.

Ecco perché la bufera preventiva contro l’ipotesi di un cambio di passo in Iraq, scatenata dopo le rivelazion­i del nostro giornale dagli stessi che una settimana fa avevano esaltato il decisionis­mo di Putin in Siria, odora d’ipocrisia, fa intraveder­e un basso calcolo politico, porta riconoscib­ile lo stigma dell’eterno ossimoro italiano.

È inutile poi denunciare lo scarso peso dell’Italia sulla scena internazio­nale o crocifigge­re il governo per l’esclusione dai tavoli che contano, dall’Ucraina alla Siria: la credibilit­à internazio­nale si costruisce mattone dopo mattone. E per dirla tutta, se proprio ci teniamo a guidare l’attesa transizion­e che pur tra mille difficoltà si prepara in Libia, l’investimen­to incrementa­le sui Tornado in Iraq è logico e inevitabil­e. Dopo aver fatto tutti i passaggi necessari, quello parlamenta­re in primo luogo, come ha ribadito ieri nel forum al Corriere il ministro degli Esteri Gentiloni. La guerra, diceva Clemenceau, è cosa troppo seria per lasciarla nelle mani dei generali. Quando la diplomazia non basta più, una vera classe politica deve saper farsene carico. Con i vincoli, ma anche con la coerenza necessaria.

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