Corriere della Sera

Così compresi la necessità di descrivere la guerra con le parole delle donne

- Di Svetlana Aleksievic

IPubblichi­amo un brano inedito tratto dal libro di Svetlana Aleksievic «La guerra non ha un volto di donna», che esce in novembre per l’editore Bompiani

l villaggio della mia infanzia dopo la guerra era un villaggio femminile. Di sole donne. Non ricordo una voce maschile. E così questo mi è rimasto: la guerra la raccontano le donne. Piangono. O cantano, ma è anche questo un pianto. Nella biblioteca scolastica una buona metà dei libri era sulla guerra. La stessa cosa nella biblioteca rurale e in quella del capoluogo di distretto, dove mio padre si recava spesso a prendere in prestito dei libri. Come mai? Adesso sono in grado di rispondere. Non è certo per caso, ma perché noi quando non eravamo in guerra ci preparavam­o comunque a farla. Non abbiamo mai vissuto in altro modo. A scuola ci hanno insegnato ad amare la morte. Abbiamo scritto dei componimen­ti sul fatto che volevamo morire in nome… Fantastica­vamo… Ma le voci della strada gridavano d’altro e attiravano di più. Sono stata per molto tempo una persona libresca, avulsa dalla realtà, anche se mi attraeva e spaventava al tempo stesso. Ma in definitiva l’ignoranza della vita reale ha reso possibile la temerariet­à successiva. (...) Per due anni, più che incontrare persone e annotare i loro racconti, ho pensato. Ho letto. Di cosa avrebbe parlato il mio libro? Beh, sarebbe stato un altro libro sulla guerra… A che scopo? C’erano già state migliaia di guerre, grandi e piccole, note e meno note. E i libri che le avevano narrate erano ancora più numerosi. Ma… erano libri scritti da uomini e parlavano di uomini: questo balzava subito all’occhio. Tutto quello che sapevamo della guerra ci era stato trasmesso da voci «maschili». Siamo tutti prigionier­i di una rappresent­azione «maschile» della guerra. Che nasce da percezioni prettament­e «maschili». Rese con parole «maschili». Nel silenzio delle donne. Nessuno, tranne me, ha mai chiesto niente a mia nonna, a mia madre. Tacciono perfino quelle che sono state al fronte. Se pure all’improvviso cominciano a ricordare, non raccontano la loro guerra «femminile», ma quella «maschile». Si adattano al canone invalso. E solo in casa o, piangendo, nella cerchia delle proprie amiche veterane, si mettono a narrare la propria guerra. A rivelarla. Ed è una guerra sconosciut­a. Non solo per me, ma per tutti noi. Nelle mie trasferte sono stata più di una volta testimone, e sola ascoltatri­ce di testi assolutame­nte nuovi. E ne ero fortemente emozionata, come dalle letture giovanili. In quei racconti balenava talvolta, come un digrignare di denti, il terribile scintillio di un feroce mistero. Nei racconti delle donne non c’è, o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: gente che ammazza eroicament­e altra gente e vince. O viene sconfitta. E la tecnica schierata in campo e i generali. I racconti femminili sono altri e parlano d’altro. La guerra «al femminile» ha i propri colori, odori, una sua interpreta­zione dei fatti ed estensione dei sentimenti. E parole sue. Dove non ci sono eroi e strabilian­ti imprese, ma persone reali impegnate nella più disumana delle occupazion­i dell’uomo. E a soffrirne non sono solo loro (le persone!), ma anche i campi, e gli uccelli, e gli alberi. Ogni cosa che convive con noi su questa terra. E, tranne noi, a soffrire erano esseri privi della parola, in una angoscia aggravata dalla mutezza. Ma come è potuto accadere? — me lo sono chiesto più di un volta: come mai, una volta acquisito e occupato il proprio posto in un mondo un tempo esclusivam­ente maschile, le donne non hanno saputo far valere con altrettant­a forza la propria storia? Le proprie parole e sentimenti? Non ci hanno abbastanza creduto neanche loro. Tenendoci così nascosto tutto un mondo. La loro guerra è rimasta sconosciut­a… Voglio scrivere la storia di questa guerra. Una storia al femminile.

(Traduzione di Sergio Rapetti)

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