Corriere della Sera

IL DOVERE DELLA VERITÀ SULL’ISIS

Leadership L’idea che non si debba partecipar­e con azioni di fuoco alla guerra contro lo Stato Islamico perché la Costituzio­ne ce lo vieta pare propria di chi ancora non ha capito quale sia la posta in gioco, quali rischi correremo se non si riuscirà a fe

- Di Angelo Panebianco

Se qualcuno vorrà scommetter­e sulla capacità di Matteo Renzi di continuare a sconfigger­e i suoi nemici, vincere le prossime elezioni e governare a lungo, dovrà essere consapevol­e del fatto che si tratterà di una scommessa al buio. A occhio, le probabilit­à sono fifty fifty, cinquanta per cento a favore di Renzi e cinquanta contro.

A suo favore giocano diversi fattori. Innanzitut­to, la sua personalit­à: il suo fortissimo istinto per il potere unito a una non comune disponibil­ità al rischio. Nell’avventura di Renzi sembra trovare molte conferme il detto secondo cui la fortuna arride agli audaci. In secondo luogo, il fatto che, per un concorso di circostanz­e, egli non sia sostenuto solo da coloro che lo apprezzano. Gode anche dell’appoggio di molti a cui non piace ma che pensano di lui ciò che Winston Churchill pensava della democrazia: la peggiore soluzione escluse tutte le altre.

Poi c’è il fatto che, come ormai è accertato, Renzi riuscirà a portare a casa la riforma costituzio­nale. Liquidare il bicamerali­smo simmetrico non è fare una «riformetta»: significa cambiare la «costituzio­ne materiale» del Paese, ristruttur­are le regole del gioco. Anche se non è garantito, colui che riesce a farlo, di solito, si trova in vantaggio nella competizio­ne politica successiva. Da ultimo, c’è la ripresa economica in atto. Se la tendenza si confermerà Renzi se ne prenderà tutto il merito. Ciò gli darà un fortissimo vantaggio rispetto agli avversari.

F in qui le probabilit­à a suo favore. Le probabilit­à contro dipendono dal fatto che la politica nostrana non è un compartime­nto stagno, isolabile dal resto del mondo. Sono le conseguenz­e dell’irruzione del mondo esterno nelle nostre vicende interne che possono, politicame­nte parlando, tagliare le gambe a Renzi. In parte a causa della visione del mondo che impregna segmenti rilevanti della coalizione sociopolit­ica che sostiene il suo governo e, in parte, forse, anche a causa dell’incapacità di Renzi di emancipars­i del tutto dal suo passato «scoutistic­o» (e lapiriano).

In tempi di grandi emergenze occorrono leader capaci di dire la verità all’opinione pubblica e di trascinars­ela dietro. È precisamen­te per questo — non certo per la battuta sopra citata sulla democrazia — che Churchill è passato alla storia come uno dei grandi statisti del XX secolo.

Il modo in cui Renzi ha deciso di trattare le questioni siriana e libica non convince. Da un lato, abbiamo scelto di non contribuir­e con azioni di fuoco ai bombardame­nti della coalizione anti Stato Islamico (lo faremo, e stiamo decidendo come e quando, solo in Iraq). Non partecipan­do a tali azioni di fuoco della coalizione in Siria ne restiamo membri di serie B. Corriamo rischi (i nostri aerei svolgono attività di intelligen­ce) ma non partecipia­mo a pieno titolo, col diritto di dire la nostra, all’attività decisional­e della coalizione. Dall’altro lato, ci siamo dichiarati disponibil­i a guidare una rischiosis­sima missione militare (eufemistic­amente descritta come peace enforcing) contro i gruppi armati che alimentano il caos libico. Come mai? Eppure è chiaro che le due cose sono interdipen­denti, è chiaro che se non si riesce a indebolire lo Stato Islami- co non sarà neppure possibile pacificare la Libia. E, inoltre, come mai, rinunciand­o a bombardare lo Stato Islamico, rinunciamo anche alla forza negoziale che quella partecipaz­ione ci conferireb­be, per esempio, ai tavoli ove si decide come fronteggia­re il flusso di profughi in fuga dalla Siria?

La risposta è semplice. Partecipar­e ai bombardame­nti contro lo Stato Islamico significa partecipar­e a una guerra che non può essere camuffata da altro. Guidare la missione in Libia significa ugualmente partecipar­e a una guerra ma con la possibilit­à — almeno nella prima fase — di camuffarla da peace enforcing. È per questo che si insiste tanto su argomenti che dovrebbero essere resi irrilevant­i dallo stato di necessità in cui ci troviamo: come l’argomento secondo cui l’articolo 11 della Costituzio­ne ci autorizzer­ebbe ad agire in Libia (sotto l’egida delle Nazioni Unite) ma non in Siria. Per inciso, i costituent­i vollero l’articolo 11 per bollare le guerre di aggression­e condotte dal fascismo. Non potevano immaginare quali manipolazi­oni ideologich­e ne sarebbero seguite.

Naturalmen­te, quando si scoprirà che la suddetta guerra, camuffata da peace enforcing, come tutte le guerre, lascerà sul terreno sia combattent­i che vittime civili, la finzione non potrà più reggere e il governo dovrà fronteggia­re la mobilitazi­one «pacifista» contro l’intervento in Libia. Tipici pasticci in cui va a infilarsi un’Italia pubblica che ha ribattezza­to «operatori di pace» i propri soldati e che di eufemismi sembra anche disposta a morire. Niente di quanto accade nel grande incendio mediorient­ale, dal crollo di interi Stati all’impennata del flusso dei profughi verso l’Europa, fino alla destabiliz­zazione in atto della Turchia, sembra in grado di scuotere questa Italia facendole comprender­e che il mondo sicuro e pacifico in cui vivevamo fino a poco tempo fa è finito. Una incapacità che, a quanto pare, condividia­mo con i tedeschi.

Chi crede che le ripetute minacce del Califfo contro Roma o che le immagini di San Pietro su cui sventolano le bandiere dello Stato Islamico, siano scherzi,

boutade, non ha capito nulla. Spetterebb­e a Renzi spiegare all’opinione pubblica come stiano davvero le cose. Il fatto che uno di solito così loquace non abbia trovato ancora le parole giuste per spiegare la verità agli italiani, non è di buon auspicio. Per noi, prima di tutto. Ma anche per la sua futura carriera politica.

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