Il bimbo usato come scudo dal nonno nel territorio dei clan più spietati
L’intercettazione: «Li conosceva, li avrebbe incastrati». I legami familiari tra vittime e carnefici
con gli sbirri se vuole salvare il buon nome della casata.
E senza sentimenti doveva essersi ridotto nonno Peppino: Cocò, la sua tenera assicurazione sulla vita, se lo tirava appresso persino a Timpone Rosso, roccaforte del clan degli Zingari nel cuore del cassanese, quando il capo dei capi, Luigi Abbruzzese, lo chiamava per strigliarlo, sospettandolo di tutte cose vere, che si stesse mettendo in affari col clan rivale dei Forastefano o che, addirittura, meditasse di squagliarsela andando sotto la protezione della giustizia. Così, per soprammercato, Peppino si faceva accompagnare pure da «Betty», Ibtissam Touss, la sua giovanissima compagna marocchina: «Guida tu, che sono stanco», le diceva. In realtà, con quel simulacro di famiglia, s’illudeva di proteggersi. «Prima di morire, veniva convocato a Timpone Rosso quasi ogni giorno», ha raccontato Battista, il fratello, ai carabinieri del Ros: «Era spaventato, lo minacciavano di morte». Anche questo
La coppia Giuseppe Iannicelli e la compagna Ibtissam Touss ha sentito e visto Cocò: la voce terrificante del boss, la tensione nell’aria. Il nonno si faceva di colpo piccolo piccolo. «Ma ripeteva che con una donna e un bambino non gli avrebbero mai fatto del male», raccontano adesso. Sbagliava. Ha solo fatto ammazzare con lui pure la donna e il bambino.
Nulla viene risparmiato al piccolo Nicola Campolongo junior nei suoi tre anni e mezzo di vita. Capita a volte di nascere al momento sbagliato, nel posto sbagliato. E la tragedia di Cocò sta proprio nel momento. Lui è nato da dieci mesi, primo maschio dopo due sorelline, quando gli arrestano tutta la famiglia, papà Nicola senior, mamma Antonia, nonna Carmela, zia Simona: operazione antidroga Tsunami, un vero maremoto domestico. La scampa solo nonno Peppino che ha appena scontato otto anni di galera e ha l’obbligo di dimora notturna a casa. Le sorelline vanno con la zia (ai domiciliari), ma a chi affidare il bambino? A un anno e mezzo Cocò finisce in prigione: la madre, pure ai domiciliari, evade per andare a trovare il marito, la rimettono dentro e il piccino non può restare che con lei, dietro le sbarre. Serve una soluzione. Col senno di poi a chiunque parrà assurdo, ma in quel momento a qualche giudice la soluzione sembra il nonno.
Peppino è un trafficante di quelli che contano, a Cassano comanda. Il clan degli Zingari lo considera una specie di ambasciatore e gli passa un chilo di roba al mese. Lui si tiene sotto come cani da guardia quei
I genitori Aveva soltanto dieci mesi quando finì in carcere tutta la sua famiglia
due giovanotti di Firmo, nel vecchio feudo di Altomonte, Cosimo Donato e Faustino Campilongo, i «firmaiuli»: due tossici però svelti di mano quando non sono fatti, il Topo («Mio» in arberesh) e il Panzetta. Un po’ ci si «imparenta». Del Topo è quasi consuocero: suo figlio Giuseppe junior è fidanzato della figlia di Cosimo; il Panzetta lo usa: gli ordina di sposare per l’anagrafe Betty, la sua donna, che ha bisogno della cittadinanza italiana. E insomma Cocò è di casa con il Topo e il Panzetta. Per questo muore, non per errore, non come un «danno collaterale»: «Hanno avuto paura, il piccolino li riconosceva a occhi chiusi», sussurrano i parenti di Cosimo Donato intercettati dalle microspie. Ciò che mamma Antonia, del resto, ripeteva dal primo momento. Perché in questa storia di famiglia letale e mafiosa, tutti sanno tutto.
Ma solo una donna ha il coraggio
Scelta coraggiosa Nonostante le minacce, è stata la ex di uno dei due presunti assassini a rompere il silenzio