Corriere della Sera

Tana, rifugio, prigione I romanzi dell’abitare

- Di Roberta Scorranese

Mentre la moglie Frieda si beava tra le braccia dell’italiano Angelo Ravagli, David Herbert Lawrence si rintanò in casa a scrivere proprio quella storia, che poi sarebbe stata pubblicata con il titolo di L’amante di Lady Chatterley. La casa, per uno scrittore (vero), non è un semplice studio con il tavolo da lavoro. Non è solo quattro pareti dove dormire, mangiare, scrivere o fare l’amore. La casa, per uno scrittore (vero) diventa un’appendice narrativa, un libro da scrivere con altri mezzi. Avvenne per Alessandro Manzoni, che nella casa milanese appena restaurata firmò le sue opere più importanti quasi in parallelo con le modifiche edilizie che faceva fare. Avvenne per Virginia Woolf, che trasformò Monk’s House, nel Sussex (casa dove visse negli anni prima di togliersi la vita) in un altare alla vita di coppia senza bambini. Invitando T. S. Eliot, gli scrisse: «Non porti abiti, qui viviamo nella massima semplicità». La vita dello stesso Eliot, d’altra parte, fu un continuo fuggire dalla sua dimora: fuori dalle pareti domestiche, infatti, si trasformò da bancario a poeta premio Nobel, ma dentro era un inferno. La mercuriale moglie Vivien non gli dava pace (arrivò a pubblicare sul «Times» questa inserzione: «T. S. Eliot è pregato di tornare a casa, Clarence Gate House 68»). Alice Munro ha girato il mondo prima di tornare a vivere in Ontario ma non nella casa paterna: in un’altra villetta, a poche miglia di distanza, quella giusta distanza che le serve ogni volta che, nei suoi racconti, deve scavarsi dentro e ritrovare sensazioni infantili. E scorrendo queste storie, in cui la dimora, per gli autori, diventa un difficile romanzo fatto di mattoni, viene da pensare che avesse ragione William Faulkner quando ebbe a dire: «Il posto migliore, per uno scrittore, dove lavorare? Un bordello».

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