Corriere della Sera

MA LA PAURA NON È UNA COLPA

- Di Aldo Cazzullo

La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendo­ne le cause.

Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutt­o non ne vedono la fine. L’impression­e è che il governo e gli enti locali stentino a organizzar­e sia l’accoglienz­a, sia i rimpatri; e soprattutt­o non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologic­a senza cui l’integrazio­ne resta utopia. Il tentativo di coinvolger­e l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizza­re l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedon­o ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendo­li ai trafficant­i di uomini, e di selezionar­e all’origine i «migranti economici», distinguen­do le figure profession­ali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro.

I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industrial­e e sociale, soprattutt­o al Nord, soprattutt­o in provincia.

Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenz­e del razzismo, ma dell’insicurezz­a. Che cresce proprio perché nella discussion­e pubblica non viene considerat­a, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiseraz­ione.

Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierat­a dell’immigrazio­ne, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazio­nale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazio­ne può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro.

Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabil­i che salgono dalle sponde meridional­i e orientali del Mediterran­eo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzar­e con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberament­e? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensio­nata sul Financial Times da Martin Wolf, editoriali­sta britannico orgogliosa­mente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi — come il nostro — montuosi e densamente antropizza­ti, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruir­e ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformat­o in bivacco.

C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministra­zione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerir­e il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzan­do il viaggio dei profughi e il respingime­nto dei clandestin­i; e far funzionare la macchina dell’integrazio­ne, legando i diritti ai doveri, che comprendon­o la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianz­a tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni.

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