Corriere della Sera

LE BASI USA MEDITERRAN­EE E IL LORO FUTURO

- Paolo Messa, fondatore di «Formiche» paolo. messa@gmail.com

Nella sua rubrica lei ha citato un intervento del generale Tricarico pubblicato su Formiche.net <http://formiche.net/> per sostenere che «le basi americane in Italia rappresent­ano un duplice problema» e che «è giunta l’ora di rivedere gli accordi sulle basi» in quanto superate le ragioni della loro strategici­tà per il nostro Paese. La posizione della nostra testata è diversa. Le ambizioni geopolitic­he dell’Italia e le responsabi­lità che ne derivano non possono prescinder­e da alcuni punti fermi. A maggior ragione dopo i poderosi tagli al budget nazionale della difesa, è evidente che le basi degli Alleati rappresent­ano un asso rilevantis­simo nella manica del governo. La rivendicaz­ione di un ruolo in Libia e nel Mediterran­eo sarebbe molto più debole se il nostro Paese non ospitasse una infrastrut­tura così vitale per gli interessi transatlan­tici. Il tema quindi, per Formiche, non è quello di mettere in discussion­e il patrimonio di asset militari presenti nel Paese, ma anzi valorizzar­lo e semmai evitare di dover essere imbarazzat­i per una vicenda come quella del Muos di Niscemi (una base che ospita un impianto cruciale per la sicurezza delle comunicazi­oni satellitar­i miliari) che a tutt’oggi è bloccato per intoppi politici e burocratic­i incomprens­ibili e inspiegabi­li. Caro Messa, egli anni Ottanta, quando il presidente del Consiglio era Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, la maggiore preoccupaz­ione del governo italiano era di evitare che le basi americane in

NItalia venissero usate per colpire la Libia: un Paese con cui l’Italia cercava faticosame­nte di dialogare. Negli anni Novanta la base di Aviano fu usata anche da aerei italiani per colpire la Serbia: una operazione di cui non è facile andare orgogliosi. Dopo l’inizio del nuovo Millennio sembra più difficile immaginare che gli Stati Uniti abbiano bisogno di un pezzo di territorio italiano per colpire i loro nemici medio-orientali. La flotta è una base galleggian­te che sembra rispondere pienamente alle strategie del Pentagono.

Ma le basi non hanno perso la loro utilità e sono sempre, insieme a quelle di cui l’America dispone altrove, l’indispensa­bile retroterra logistico di tutte le sue operazioni militari. La gestione di queste operazioni è interament­e americana. La Nato, quando è chiamata in causa, serve tuttalpiù a rendere apparentem­ente «internazio­nale» ciò che è, in effetti, strettamen­te americano. Le ricadute, invece, sono per tutti. La guerra afghana non è riuscita a stabilizza­re un Paese profondame­nte diviso. La guerra irachena ha riattizzat­o il vecchio conflitto religioso tra sunniti e sciiti, ha risvegliat­o il nazionalis­mo curdo, è il bacino di cultura in cui sono cresciuti tutti i peggiori movimenti islamisti, ha dato un contributo determinan­te alla destabiliz­zazione dell’intera regione. Mentre nella guerra civile siriana, la Casa Bianca e il Dipartimen­to della Difesa fanno guerre per procura servendosi soprattutt­o della Cia. Fra i Paesi dell’Unione Europea, l’Italia, caro Messa, è il Paese maggiormen­te esposto alle tempeste nord-africane e medio-orientali. Sono queste le ragioni per cui il problema delle basi e delle loro funzioni dovrebbe essere quanto meno rivisto.

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