Corriere della Sera

La maestra innamorata e la fatica del distacco

- Di Rosa Maria Colangelo

Sei arrivato un giorno di settembre. Avevi paura. Le labbra strette in un sorriso doloroso, le mani in aria a volteggiar­e per seguire contorni indefiniti che erano dentro di te, solo tuoi (sfarfallio, lo chiamano). Issato sulle punte dei piedi saltellavi per cercare di toccare il cielo. Mi sono piegata alla tua altezza e ho cercato i tuoi occhi che erano altrove, lontano, dietro le mie spalle a seguire il girotondo infinito di una ventola (stereotipi­e, le chiamano). Poi mi hai guardata come si guarda il vuoto. Mi sono alzata e ho spostato i miei occhi sui tuoi genitori, tu allunghi una mano a sfiorarmi un ginocchio, io ritorno giù di botto, ma sei di nuovo via, lontano, sulle ali della ventola. Forse è stato solo uno sfiorarmi involontar­io, una mia illusione. Abbiamo parlato a lungo io e i tuoi genitori: delle cose che sai fare (poche), di quelle che non sai fare (molte), di dove potresti arrivare (in alto?), delle sconfitte, delle delusioni, dei tentativi, dei ritorni indietro e delle corse in avanti. Abbiamo parlato a lungo di te. Al momento di separarti sei rimasto stretto al collo di tuo padre e non c’era verso di sradicarti da quell’abbraccio. Negli occhi di tua madre due lucciconi grandi, amari.

Sono andati via e rimaniamo io e te. Ci sediamo su due sedioline uno di fronte all’altro, cerco i tuoi occhi che ancora corrono via, lontano. Non ci sei, non sei qui con me, non ora almeno. Ti chiamo a lungo, dolcemente, ti accarezzo una mano, una guancia, non ti sottrai ma non ti giri. Sto per alzarmi, devo ricevere gli altri bambini che arrivano (ti ho fatto venire in anticipo il primo giorno di scuola per accogliert­i con tranquilli­tà), e questa volta il tuo è un gesto cosciente: mi tocchi il ginocchio. Ritorno alla tua altezza mi accorgo che ora mi vedi, per la prima volta forse, è un attimo poi cerchi altro, altrove. Arriva la ciurma di bambini urlanti, curiosi, i saluti, le informazio­ni da ricevere, da dare, come in tutte le scuole dell’infanzia: ansie di piccoli e grandi da contenere, rassicuraz­ioni e quant’altro.

Tu non ti sei mosso da dove eravamo seduti, ti sei solo messo in piedi e hai incomincia­to a saltellare e a sfarfallar­e girando in tondo, uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette.... mi gira la testa, ti ho chiamato una, due, tre volte inutilment­e poi mi sono avvicinata e ti ho bloccato, non avrei resistito oltre. Si fa, non si fa? Non lo so e non me ne importa niente, non potevo vederti così e basta. E ancora mi hai guardato! Il contatto visivo è fondamenta­le in ogni relazione, figuriamoc­i con te. Abbiamo tenuto gli occhi insieme per un piccolissi­mo istante, ma ci siamo stati tutti e due dentro in quello sguardo.

A cena mi trovo a parlare di te davanti a un piatto di insalata e un marito attento. Parlo di rado di scuola a casa, è stata una mia scelta di vita, come parlo di rado di cose di casa a scuola: ho sempre cercato di tenere gli ambiti separati e devo dire di esserci riuscita. Finora. «Non parli mai dei tuoi bambini », dice Luca. «È vero, ma Marco è diverso, sai, è... è....». «Disabile?». «No, speciale!». Mi ritrovo a pensare a te ancora a letto: è un pensiero che ritorna, e ritorna, e ritorna...

Non ho più smesso di pensarti. Amo il mio lavoro, i miei bambini, ma non mi era mai successo di «innamorarm­i a prima vista». Già il giorno dopo ti cerco sulla porta d’ingresso, ti vedo arrivare stretto alla torre che è tuo padre, ti lasci scivolare giù mentre cerchi la ventola da fissare. Non mi degni di uno sguardo, non saluti nessuno, vai alla tua postazione e incominci a saltellare e a sfarfallar­e e a girare. Ti richiamo una, due, tre volte, mi siedo di fronte a te e ti parlo a lungo mentre il tuo viso è girato dall’altro lato. Non ci sono, non ci sono, per te non ci sono, non esisto. La mia collega me lo dice anche lei che ci vuole pazienza con i bambini così. Devono avere i loro tempi, i loro modi. Il fatto è che io non voglio avere pazienza, non con te. Non voglio vederti così. Perché? Perché sei la misura della mia impotenza, della mia sconfitta, almeno ora.

Tutti i giorni ormai la prima cosa che cerco sei tu e anche tu cerchi solo me, mi stai vicino senza toccarmi, ma mi stai sempre vicino e se ti prendo in braccio non ti divincoli ma neanche ti lasci mai andare al mio abbraccio, rimani rigido e dritto, come un ramo spezzato. Eppure questo tuo cercarmi mi gonfia di stupido orgoglio: vuole solo me! Mi riempio la bocca di questa sciocchezz­a. Se poi ti incontro per la strada (abito nel tuo stesso quartiere) mi si illumina il viso e ti chiamo anche se so già che non ti volterai, che non mi degnerai di uno sguardo.

Poi mi hai sorriso! È stato proprio un sorriso. Dopo sei mesi. Neanche l’ho mai cercato quel sorriso. È arrivato e basta ed era per me. Stai sulle mie ginocchia come sempre accade dopo pranzo, saltello sulle punte dei piedi e mi viene in mente una filastrocc­a: cavallino cavallino va pianino va pianino, e se Marco salta in groppa si galoppa si galoppa! Mi fissi e improvvisa­mente sorridi. Ancora, mi dici. E quell’ancora è durato fino a sfinirmi. Non avrei mai smesso pur di vederti così: sorridere e guardarmi e parlarmi. Sai che per un anno intero non ho mai saltato un giorno di lavoro perché dovevo, volevo vederti. Quando hai incomincia­to a chiamarmi per nome mi è sembrato di toccare il cielo con un dito. Le nostre giornate sono andate avanti così: tu al mio fianco, o in braccio o seduto vicino a me, mi cerchi ovunque e per qualunque cosa. Il tuo sorriso accende il mio mattino e spegne la mia sera. Per fortuna che la mia collega non è gelosa! Capisce la situazione e aspetta. «Non ti ho mai vista così», ripete Luca. «Hai ragione ma non posso farci niente, quel bambino mi è entrato dentro». «Forse non va bene». «Forse».

Ma non so toglierti dalla mente mentre sono a casa, in giro, in viaggio: adesso cosa farà? Dove sarà? I tuoi occhi mi inseguono ovunque e il tuo sorriso come il miele più dolce mi gonfia il petto. Piccolo Marco, non voglio perderti.

No che non va bene. Devo lasciarti andare, lo so. Si lasciano andare via le persone anche per troppo amore. Devo lasciarti andare Marco, è giusto così. Devo farlo per te e forse per me. Perché ti amo troppo e non posso permetterl­o, è scorretto. Ti lascio andare Marco. Ogni giorno che passa mi guardi con le tue pupille sgranate e il tuo sorriso si piega leggerment­e mentre cerchi una giustifica­zione, ma devo farlo Marco, perdonami: «Vai da Lena, Marco. Lena, vieni che devi aiutare Marco, dai Marco gioca con lei un po’, Marco non starmi così addosso». Anche la psicoterap­euta ha trovato onesto questo distacco. Ma quanto mi costa. Adesso i tuoi sorrisi sono altrove, le tue mani stringono altre mani, eppure quando incrocio il tuo sguardo sono felice e mi si scioglie il cuore. So di esserci sempre per te, con l’amore che «ti devo» per onestà e profession­alità. So che anche se sei altrove e con altri ti sono dentro e mi basta. Deve bastarmi. Ti amo così tanto piccolo Marco che ho dovuto lasciarti andare.

Dopo sei mesi, mi hai sorriso. E non ho più smesso di pensarti, io sempre così attenta a non mescolare la vita privata con quella profession­ale. Piccolo Marco, non voglio perderti. Eppure so che devo lasciarti andare. Devo farlo per te e forse anche per me

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