IL TAGLIAMENTO, FIUME INTOCCABILE
La messa in sicurezza del fiume Tagliamento, in Friuli, è ritenuta un’urgenza da decenni, ma proteste e rivalità bloccano i 41 milioni di fondi già stanziati nel 2000.
Le case sull’argine hanno le finestre sbarrate. Sulle imposte è appeso il cartello «Affittasi» ormai consumato dal tempo. Il sole splende, il cielo è azzurro. Ma lungo la passeggiata che costeggia il Tagliamento non si incontra un’anima. Latisana vive con le spalle girate al suo fiume, come se avesse paura di guardarlo. Sembra un controsenso, per una città da 14.000 abitanti della Bassa friulana che lavora con il turismo generato dalla darsena sulla laguna. «Come fosse ieri. Le travi di legno del solaio dove ci eravamo rifugiati scricchiolavano per la pressione dell’acqua. Si sentivano i muggiti dei bovini trascinati via dalla corrente. Mio padre uscì per cercare soccorsi. La sua barchetta restò incastrata in un recinto sommerso. Rimanemmo così per due giorni, senza poterci muovere».
I traumi e le ferite si tramandano, fino a diventare paure ancestrali. Angelo Valvason era un bambino quando accadde. La prima piena secolare fu quella del 2 settembre 1965, 4.300 metri cubi d’acqua al secondo. Il Tagliamento esondò coprendo la città di fango. Morirono undici persone. Le strade erano ancora piene di detriti quando il 4 novembre 1966 arrivò la seconda piena secolare. Saltarono gli argini. Il fiume allagò Latisana e altri 53 Comuni. Le vittime furono 16. «Se dovesse succedere ancora, finirebbe nello stesso modo». Oggi Valvason è vicesindaco della città dove è nato. «Il problema è ben conosciuto, come pure la soluzione. Ci sono anche le risorse. Ma quando le scelte scientifiche vengono filtrate dalla mediazione politica, il risultato è questo: zero».
Se cinquant’anni vi sembran pochi. «Il più infido dei nostri corsi d’acqua». Così si legge nel testo firmato da Aldo Moro che nel dicembre 1966 istituiva la Commissione nazionale incaricata di valutare le cause del disastro. Cominciò una delle pagine peggiori della gestione del territorio italiano e della cosa pubblica, con un mare di denaro perso in mille rivoli di studi, incarichi, deleghe, senza che nessuno si prendesse la responsabilità di una decisione. Sono passate invano altre due Commissioni interministeriali, una Regionale, due Gruppi di studio, un Concorso di progettazione, e soprattutto un Piano stralcio per il riassetto idrogeologico tuttora in vigore che dal 2000 ha dato a Veneto e Friuli Venezia Giulia la bellezza di 41 milioni di euro da dedicare alla definitiva messa in sicurezza del fiume. Niente.
Neppure la disponibilità immediata dei soldi, caso unico in Italia, ha battuto l’inerzia della politica.
Il Tagliamento è l’unico fiume italiano alpino e torrentizio al tempo stesso. Nasce e scorre in alta quota per finire la sua corsa nelle lagune venete. In poche ore si riempie come un piccolo rigagnolo. Le valli creano un imbuto nella zona di Pinzano, al termine di quel che viene chiamato medio corso, prima della Bassa friulana che ha sempre patito le conseguenze delle sue piene. «Deve unire la montagna, la pianura e la riviera» dice Roberto Foramitti, che gli ha dedicato il suo lavoro di urbanista e ingegnere idraulico. «Non devono esserci linee di demarcazione. Ogni comunità deve collaborare per risolvere il problema». Ma questo non è il mondo ideale. La piena del fiume sarà anche secolare, previsione alla quale si aggrappano tutti come fosse un amuleto. Eppure nel 1996 e nel 2004 Latisana e San Michele al Tagliamento furono sgomberate per il timore di un anticipo sui tempi.
In mezzo secolo sono cambiate solo le definizioni e le tecnologie. La Commissione De Marchi, anno di grazia 1972, giudicava «urgente» la costruzione di un bacino a Pinzano, che è poi diventata una serie di casse d’espansione fino alle recenti traverse di laminazione battezzate dal Laboratorio Tagliamento. Alla fine si torna sempre alla casella di partenza. Alla necessità di una valvola che trattenga l’acqua a monte per impedire che a valle superi la portata di 4.000 metri cubi al secondo. «Noi abbiamo fatto il possibile» dice Salvatore Benigno, sindaco di Latisana. «Argini alzati, ricalibratura dei torrenti, sollevamento del ponte. Ci resta solo da abbassare il livello del mare... Ma senza quell’intervento è tutto inutile. Invece i colleghi che stanno più in alto e la Regione ci invitano ad arrangiarci».
Tutti contro tutti. Basta risalire la strada provinciale di sessanta chilometri fino a Pinzano, il paese della famosa stretta. «Il fiume si è incanalato da solo, mica è colpa nostra. Non fanno che riproporre opere che sarebbero uno scempio ambientale chiedendoci di essere pure contenti». Il sindaco Debora Del Basso dice che gli interventi devono essere distribuiti lungo il corso del fiume. «Si è creato un dualismo tra noi e loro. Ma ognuno deve guardare al proprio territorio. E la Regione non ha mai svolto opera di mediazione». Le associazioni ambientaliste sono dalla sua parte in una contesa dai toni aspri. «Quelli di Latisana la smettano di chiedere la luna» dice Roberto Bortolussi, presidente dell’associazione Acqua. «Inutile speculare sulle paure di cinquant’anni fa». A mezza voce, ogni contendente rinfaccia all’altro coltivazioni ed edifici in zone golenali, e in questo caso hanno tutti ragione.
La Regione recita da mezzo secolo il ruolo del convitato di pietra. Sara Vito, assessore all’Ambiente ed Energia del Friuli, ha ammesso di non sapere da quanto sono fermi nelle sue casse quei 41 milioni di euro. L’Autorità di bacino dei fiumi è stata incaricata dell’ennesimo studio tecnico ma è senza segretario generale dal luglio scorso. Il ministero dell’Ambiente non ha ancora provveduto alla nuova nomina. L’assessore Vito ha chiesto altri 18 mesi per ulteriori approfondimenti, facendo imbestialire i sindaci della Bassa. Alla messa celebrata per i cinquant’anni della prima alluvione le autorità sono arrivate in ritardo. Monsignor Carlo Frant ha concluso la sua omelia con le parole del parroco di allora, scritte nella chiesa invasa dal fango. «Dio ha demandato alla nostra intelligenza la prevenzione di certe calamità, ma noi dobbiamo cercare di stare uniti, perché a dividerci siamo bravissimi».
È il fiume più pericoloso (lo disse anche Moro nel ‘66) ma veti incrociati e liti bloccano le opere «urgenti»