EL GRECO L’ITALIANO
LA FEDE, I MISTERI, LA MODERNITÀ LA SCOMMESSA DEL CRETESE CHE VOLLE FARSI OCCIDENTALE
Il curatore Puppi: «Capì che la dialettica luce/colore, propria delle icone era radice dell’arte veneta»
L’appuntamento A Treviso una mostra ripercorre i dieci anni trascorsi dal pittore nel nostro Paese. Così nella seconda metà del Cinquecento unì la sensibilità di matrice bizantina alla lingua di Tiziano e Tintoretto. Con un «giallo» alla Poe
Il porto. I palazzi smerlati, stile veneziano. Bifore su botteghe dal tetto basso, bianche, dove l’oro si fondeva con il legno, la base delle icone d’impronta bizantina. Era così la città di Candia (Creta) dove Dominikos Theotokopoulos nacque nel 1541? E che cosa aveva in mente il giovane pintore mentre rifiniva l’ennesima icona, un volto di Cristo impassibile, magari dopo aver sfogliato un volume che, in bianco e nero, riproduceva un ritratto intenso, aristocratico, di Tiziano?
Una cosa è certa: nella seconda metà del ‘500 Dominikos lascia la casa, la moglie, la luce di Creta, l’ortodossia pittorica bizantina e arriva a Venezia. Non lo sa ancora, ma attraverserà trecento anni di oblio (e ostracismo), verrà riscoperto nell’Ottocento e passerà alla storia con il nome di El Greco.
Questa storia viene raccontata in parte a Treviso, alla Casa dei Carraresi. El Greco in Italia è la storia del periodo italiano di Theotokopoulos, un decennio misterioso (1567-1576) che è soprattutto la storia di una scommessa. «Lui aveva davanti due strade: quella dell’Oriente e quella dell’Occidente cristiano. Puntò sulla seconda e vinse», dice Lionello Puppi, storico conoscitore di El Greco e «anima» del progetto scientifico della mostra. Ma perché?
Ragioniamo. Un artista solido, affermato e benestante nella sua terra che lascia tutto, accetta di vivere una seconda vita («Amerà altre donne, ma non si risposerà, fedele al matrimonio contratto in patria», dice Puppi) rischiosa, perché passata a confrontarsi con maestri del calibro di Tiziano. Forse la risposta sta nel saggio di Massimo Cacciari, a corredo della catalogo: l’icona, in fondo, è la potenza dello sguardo, la rappresentazione perentoria, immobile, che si fa unica realtà possibile. A Creta, all’epoca, arrivava molto materiale da Venezia: stampe, libri, notizie di un altissimo mondo culturale. Domenico guarda e si vede già in quel mondo. Ne è parte ancora prima di arrivarci, nel 1567, perché credeva a quelle opere che vedeva. Parlava la lingua latina, accanto al suo idioma greco.
Prendiamo il San Demetrio (1565 circa, in mostra): la fissità di stampo bizantino si stempera già nel gusto occidentale. «Guardate le due cariatidi nude ai lati: segno inequivocabile di cambiamento», è l’invito di Serena Baccaglini, membro del comitato scientifico. Domenico arriva a Venezia e assorbe lo choc del vedere da vicino, a colori, il mondo di Tiziano o di Tintoretto, mondo che aveva amato sui libri. La scommessa si fa più rischiosa: fare della fede cristiana non un manifesto ideologico ma strumento pittorico, materia viva. C’è una Ultima Cena alla maniera di Tintoretto (quella di San Trovaso) in esposizione: gli apostoli sembrano volare, fare un balzo. Letterale, come quello che fece lui.
«Capì — chiosa Puppi — che la dialettica luce/colore, propria delle icone, in realtà era anche alla base della pittura occidentale» e così scelse la seconda via. Fede come motore dei colori, sempre più fluidi, dell’esaltazione allucinata delle figure (che poi incanterà artisti come Bacon e in mostra ci sono due disegni dell’irlandese), della straordinaria modernità che derivava da un’enfasi primitiva, infantile, di un bambino che scopre il trucco illusionistico. È il raffinato interprete dell’ortodossia che si incontra con il
misticismo della terra che era stata di Giorgione e di Lotto.
L’Altarolo di Modena, emblema di un fede addirittura con tratti controriformistici; un bellissimo Crocefisso a confronto con altri cristi in croce fatti da Giambologna e da Jacopo da Bassano, e un san Francesco nel quale pare che il Greco voglia mettere un poco della maestria di Tiziano: quanto era vitale Domenico nella sua Venezia! Quanto era vivo. Poi se ne andò a Roma, alla corte del cardinale Farnese, fino al licenziamento (pare a causa del caratteraccio del Greco, che osò canzonare Michelangelo).
E poi? Poi c’è il buio. Che cosa ha fatto fino all’approdo a Toledo, dove concluderà la sua vita? Puppi ci ha messo anni di studio, ha analizzato opere che stanno affiorando dall’Umbria, da Parma, come in un giallo sulle tracce di un fuggitivo (in centro Italia. Forse). «Si nascondeva, di certo» dice il professore. Ma da chi? E perché? E allora, come nella Lettera di Poe, meglio non cercare nei posti sbagliati. Cercare vicino.
Meglio interrogare le opere (molte nella mostra voluta da Andrea Brunello), come La Guarigione del cieco, 1573, dove El Greco ci sta raccontando il mondo che vedeva, fortemente connotato nelle architetture e nei personaggi, come se stesse individuando committenti e destinatari. In cui, insomma, parla attraverso la sua pittura. Ecco, è una mostra da ascoltare.