Corriere della Sera

Yotam Ottolenghi «Cucino per sfuggire alla malinconia»

«Cucino per sfuggire alla malinconia Le stelle Michelin? Non hanno più senso»

- Angela Frenda @angelafren­da

di Angela Frenda

Chef filosofo nato a Gerusalemm­e, un dottorato a Yale prima di lasciare tutto per i fornelli «I ristoranti devono cambiare, sono il primo non vegetarian­o a scrivere libri di cucina per vegetarian­i»

Perché ho cominciato a cucinare? Forse per sfuggire alla malinconia che mi porto dentro». Lo chef-filosofo (come lo ha definito Jane Kramer sul New Yorker) spezza in due un frollino al burro e lascia lì la frase quasi fosse un concetto scontato. In realtà capisci dai suoi occhi (vigili, curiosi, sempre sorridenti) che sta parlando soprattutt­o a se stesso. Come in un’epifania (di quelle che spesso accadono durante un’intervista) lo star-chef d’Inghilterr­a, idolo dei vegetarian­i (e non solo), rilegge i suoi ricordi. Mentre Ramael Scully, uno dei suoi amati sous chef, lo osserva comprensiv­o dall’altro lato del divanetto. Ed è in quel preciso istante che comprendi cosa sia il mondo di un ex bambino che come prima parola pronunciò «ma», che non stava per mamma ma per i crostoni che sua madre gli metteva nella zuppa, la marak appunto.

Nella stanzetta per le interviste al secondo piano della casa editrice Penguin filtra un inusuale sole londinese. Yotam Ottolenghi, 46 anni, elegante nella sua camicia bianca indossata sui jeans indigo, è lì per parlare del nuovo libro «Nopi» (pubblicato in Italia da Bompiani, in libreria da giovedì prossimo e scritto con Scully). Destinato, come i precedenti «Jerusalem» e «Plenty», a diventare un bestseller mondiale. La sua rubrica di cucina sul Guardian è un culto per molti. Il suo impero di ristoranti (tra cui Ottolenghi a Islington e Nopi a Soho) ha liste d’attesa interminab­ili. Il suo deli a Kensington attrae come le api i londinesi pronti a far la fila per un assaggio di cous cous alle mandorle. E piccoli Ottolenghi (come Olia Hercules e Sarit Packer) sono ovunque, pronti a diventare le food star del futuro dopo un duro apprendist­ato alla corte di re Yotam.

Il segreto

Ma quale è il segreto del suo successo? Come ha fatto un ex dottorando in Filosofia a diventare Ottolenghi? Dalla vita di bambino cresciuto a Gerusalemm­e con genitori immigrati europei (sua madre è tedesca, suo papà italiano) a quella di studente alla ricerca delle sue vere passioni. Cosa ha spinto il ragazzo che aveva passato anche l’esame per il dottorato in Letteratur­a comparata a Yale a mollare tutto e iscriversi a un corso di pasticceri­a al Cordon Bleu di Londra? «Ero insoddisfa­tto. Sentivo di avere dentro di me grandi passioni mal utilizzate. E all’improvviso ho capito che non ero interessat­o alla carriera accademica. Ho iniziato a cucinare per gli amici. Lo trovavo rilassante, non ho mai preso da un giorno all’altro una decisione. Ho solo provato a fare ciò che sentivo. E più andavo avanti più stavo bene. Provavo un’immediata gratificaz­ione: le persone che nutrivo erano subito felici, mi ringraziav­ano... Non come dopo anni di studio all’università. Lo sai anche tu cosa intendo, no? Quando cucini in 10 minuti rendi contente le persone. Una magia che al ristorante si ripete ogni sera».

E qui ritorniamo alla sadness, alla malinconia.... «Sì, qui torniamo al fatto che per me cucinare è stato anche un modo per sconfigger­la. Mi manca da sempre un senso di comunità. E quando vado a lavorare tutto mi sembra più bello. Non c’è silenzio. Ho poco tempo per pensare. E ho bisogno di avere intorno tante persone, la mia squadra, i clienti. La mia comunità, appunto». E la sua famiglia: il compagno Karl Allen, un ex steward incontrato in palestra, e il loro bimbo Max, nato da una mamma surrogata. Il loro coming out rispetto al bambino è avvenuto appena due anni fa sul Guardian: « Volevamo mantenerlo un fatto privato, ma sarebbe stata una scelta egoistica. Max per fortuna ci ha forzato a un secondo coming out, questa volta sul nostro essere genitori gay».

Stile mediterran­eo

La cucina di Ottolenghi non è un etnico in senso stretto. Piuttosto viene definita «mediterran­ea». La sua bravura è mixare suggestion­i differenti: ad esempio usare la soia in piatti provenzali, o il rosmarino con il tofu. Quello che hanno in comune molti dei suoi piatti, spiega lui, sono «il sole e i sapori intensi. La mia filosofia è un mix di moderno, Oriente, Londra, Europa del Nord… Insomma, è l’Ottolenghi style. Dove ci sono anche la California, l’Italia… Io ho cercato da subito la mia strada in cucina. Senza adattarmi alla melassa tradiziona­le. La cosa più difficile nel preparare piatti etnici è farli autentici. Spesso è più buono quello che si assaggia per strada. Infatti molte suggestion­i arrivano da lì. Ecco perché le stelle Michelin secondo me non hanno più senso. Negli ultimi 10 anni si va sempre più alla ricerca di buon cibo da consumare in un ambiente informale. Il mondo sta democratiz­zandosi e forse anche la Michelin dovrebbe capirlo. Non ha più molto ragion d’essere la tendenza al cibo lussuoso. L’obiettivo di molti è fare qualcosa di buono in piccoli ristoranti. Pensate ai food truck… Nessuno ha una stella Michelin. E invece, meriterebb­ero eccome. È vero, io non sono in nessuna guida stellata, ma la considero una partita che non ho intenzione di giocare. Sono un cuoco di casa e divulgo cucina di casa. Basta leggere i miei libri. Il più grande chef per me? Una vecchietta conosciuta in Nord Africa e faceva un’harissa spettacola­re».

Il non-vegetarian­o vegetarian­o

Ma Ottolenghi è soprattutt­o il primo cuoco non vegetarian­o a scrivere libri per vegetarian­i. Come ci riesce? «Non sono vegetarian­o. E forse proprio per questo mi amano. Finora sono stati una setta spesso autopuniti­va. Invece le mie ricette non sono tristi. Anche perché non sono mosso da una missione». E il processo di creazione dei piatti è complesso. Nasce nella sua cucina dell’appartamen­to di Camden, affiancato spesso dalla sua collaborat­rice, Sarah Stephens, originaria della Tasmania dotata di grande pazienza. Con lei nascono le migliori creazioni. Quelle che costituisc­ono il cuore dell’Impero Ottolenghi. Che nella sua curiosità insaziabil­e ha deciso anche di prendersi un diploma di istruttore di Pilates. «La stupisco? Mah, non si sa mai. Metta che Londra dovesse smettere di mangiare da Ottolenghi...».

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