Romanzo verità, con molta verità
L’Italia raccontata da «Il facilitatore» di Sergio Rizzo: ogni riferimento alla realtà non è casuale
Cominciamo con una facile. Chi fu «quel portavoce del segretario della Dc» arrestato all’epoca di Mani pulite e portato in tribunale «con le mani incatenate dagli schiavettoni»? (1) Questa invece è già, come si dice, per i solutori più abili: chi fu quell’altro inquisito rivelatosi così potente, per quanto fino ad allora sconosciuto ai più, che gli stessi investigatori milanesi lo definirono «un gradino sotto Dio?» (2)
Ecco, non è la «Settimana enigmistica». Ma sappiate fin da ora che vi ci potete divertire: il nuovo libro, che poi questa volta è un romanzo, di Sergio Rizzo, firma del «Corriere» cui si deve in complicità con Gian Antonio Stella la ridefinizione italiana di «casta», si può leggere anche così. Magari con Google di fianco, che sarete tentati di consultare a ogni pagina. Intanto ora (mentre, se ne avete voglia, cercate una risposta alle due domande qui sopra) immaginate un romanzo alla rovescia. Nel senso che se il genere narrativo può talora raccontare vicende così verosimili da rendere necessaria la famosa precisazione anti-querela per cui «ogni riferimento alla realtà è casuale», questo libro sembra spararne di così grosse e così tante da dover specificare in anticipo che «non sono frutto della fantasia», ma «traggono tutte spunto da fatti accaduti o circostanze reali». A differenza dei personaggi, i quali «invece sono immaginari». A cominciare naturalmente dal protagonista narratore della storia che poi è anche il titolo del libro: Il facilitatore (Feltrinelli). Che non ha più niente da ridere e anzi ormai ha solo una gran paura. Perché ora è lì in casa sveglio, nel cuore della notte, e aspetta solo i carabinieri che all’alba — gliel’ha detto il suo avvocato François e neanche lui potrà farci niente — verranno per arrestarlo. Così, mentre aspetta, ricorda e racconta. Trent’anni e passa (veri) di Italia e corruzione, e malcostume, e scandali, e società malata, e uomini e donne «senza vergogna». Visti da vicino che più vicino non si può. Perché sono quelli come lui, in caso di intoppi, a facilitare per loro le cose.
Si chiama Adolfo Ramelli, detto Bruno. Una carriera da giornalista trasformatasi pian piano, come rotolasse, in coltivazione di rapporti e gestione di amicizie, apertura di conti e custodia di segreti. Di politici e imprenditori, alti burocrati e banchieri. Potere e denaro. Un personaggio assolutamente inventato, al quale sarebbe del tutto arbitrario, per la precisazione appena citata, associare una figura reale come quella di Luigi Bisignani, la cui biografia — dal processo Enimont su a risalire e poi a scendere — si specchia in quella del nostro in modo solo e soltanto «assolutamente casuale».
Naturalmente è una vicenda specifica ad averlo portato fin lì, ad aspettare i carabinieri. Un mega appalto ferroviario, l’inchiesta di un magistrato, intercettazioni e così via. Ma la sua memoria è in realtà una anto- logia storica sterminata, ogni capitolo un nome (inventato) per un rosario di (veri) fatti senza fine. Con le cose più identificabili a far da contorno, dalla loggia massonica di un Venerabile che in nessun modo si chiama Licio Gelli alla morte di quel manager di Stato, che in nessun modo si chiamava Lorenzo Necci, investito un giorno da un pirata mai identificato. Piazza Fontana, Aldo Moro, lo Ior. Su questo sfondo il resto.
Come quel provveditore romano — racconta il Facilitatore — ringraziato con una Bmw al figlio e una 500 alla moglie, e che sarebbe totalmente improprio associare a quell’Angelo Balducci finito a suo tempo sui giornali per una vicenda quasi uguale. O come quell’imprenditore (inventato anche lui) che un giorno atterrò direttamente in spiaggia con l’elicottero, simile solo per casuale coincidenza a quell’altro (vero) imprenditore Francesco Piscicelli — quello che rideva per il terremoto dell’Aquila — il quale con un elicottero atterrò sulla battigia di Ansedonia per andare al ristorante. E quel fratello di una amante assunto come maestro di tennis. E quella telefonata a un rettore per far passare a un nipote, dopo sette tentativi, l’esame di anatomia...
Cita Machiavelli, il Facilitatore Bruno Ramelli: «Purtroppo noi italiani siamo in modo particolare irreligiosi e corrotti». È la giustificazione che spende con sua mamma ormai anzianissima, in un capitolo che è il più struggente del libro: «Ma almeno ci hai provato?». «No mamma, non ci ho provato».
Solo che non è vero, si ricava dalla sua storia. La corruzione non è un fatto di Dna. Anche Bruno Ramelli, si scoprirà, a un certo punto della sua vita avrebbe potuto scegliere. E ha scelto. Finché i carabinieri suonano alla sua porta.
(1- Enzo Carra. 2 - Francesco Pacini Battaglia)