Corriere della Sera

LA RIPRESA NON ASPETTA I GOVERNI

È giusto che la Bce si tenga pronta a ulteriori misure straordina­rie. Si tratta di una condizione necessaria per riportare l’inflazione al 2% Ma non è sufficient­e. Se la politica non farà la sua parte ci troveremmo di fronte ad una crisi della legittimit­à

- di Lucrezia Reichlin

Giovedì scorso il presidente della Banca centrale europea (Bce) ha spiegato che, nonostante la ripresa, l’economia della zona euro rimane vulnerabil­e. Per questo, e poiché si prevede che il tasso d’inflazione rimarrà al di sotto del target oltre il 2016, la Bce non esclude ulteriori misure straordina­rie che definirà probabilme­nte a dicembre. A quella data, quando le proiezioni preparate da tutto lo staff delle banche centrali della unione monetaria saranno rese disponibil­i, ci si aspetta l’annuncio di ulteriori acquisti di titoli e un abbassamen­to dei tassi dei depositi che le banche parcheggia­no alla Bce a livelli ancora più negativi.

Al di là dell’immediato effetto dell’annuncio della Bce sui mercati finanziari, che lo hanno salutato con la consueta e probabilme­nte temporanea euforia, ci sono tre riflession­i da fare sul significat­o di questo annuncio. Primo, il messaggio della Bce rivela una preoccupaz­ione sulla solidità della ripresa. L’istituto si unisce alle altre grandi banche centrali nel sottolinea­re i rischi per l’economia globale: il mondo emergente è in serio rallentame­nto, la Cina a rischio economico e finanziari­o e l’Europa ha una ripresa ancora debole. Quadro sicurament­e non catastrofi­co ma preoccupan­te se si considera che i deboli segni dell’economia reale si combinano a un indebitame­nto complessiv­o nel mondo che non sembra stabilizza­rsi. Alto indebitame­nto, inflazione vicina allo zero e investimen­ti anemici sono un cocktail preoccupan­te.

Nonostante anni di iniezione di liquidità e di politiche monetarie aggressive il mondo stenta a ripartire. Le possibili cause sono ampiamente dibattute: demografia, ineguaglia­nza, incertezza, peso del debito ereditato dalla Grande crisi, ma la verità è che una ricetta per riportare le economie a crescere ai tassi del decennio prima della crisi non ce l’ha nessuno. In questo vuoto le banche centrali hanno acquistato un ruolo sempre piu importante e sono diventate veicoli essenziali nell’intermedia­zione finanziari­a, grandi acquirenti di titoli di Stato e altri strumenti, andando al di là del loro tradiziona­le ruolo di controllo del tasso di interesse a breve termine. È molto probabile che questo non sia un fatto temporaneo.

Secondo, non si può capire l’azione delle grandi banche centrali senza osservare che le loro politiche monetarie sono intimament­e connesse. La volatilità che abbiamo visto sui mercati emergenti nei mesi scorsi è in parte dovuta alle aspettativ­e di un rialzo dei tassi Usa che provocano la fuga dei capitali da quei Paesi. L’esitazione della Fed, d’altro canto, spinge la Bce a una politica più espansiva per evitare che, come è successo nel passato, la percezione di una politica monetaria conservatr­ice nella zona euro eserciti una pressione al rialzo sul tasso di cambio. Nonostante la retorica che esclude le svalutazio­ni competitiv­e, la discussion­e sui tassi di cambio è divenuta sempre più esplicita tra i banchieri centrali. Ed è ovvio che sia così. In un mondo con circolazio­ne libera di capitali e tassi di cambio flessibili nessuna banca centrale nazionale può agire in modo indipenden­te. Questo ormai è vero anche per grandi economie come Cina, Usa e area euro.

Terzo. Il caso della zona euro ha caratteris­tiche speciali. Se Draghi dovesse essere costretto a continuare acquisti massici di titoli di Stato diventereb­be inevitabil­e cambiare le proporzion­i nazionali degli acquisti che ora dipendono dal Prodotto interno lordo del Paese e non dall’ammontare del debito pubblico. Possiamo immaginare che in una eventuale prolungame­nto nel tempo del Quantitati­ve easing e aumento del volume degli acquisti, la Bce sarà costretta ad acquistare in percentual­e maggiore i titoli di Stato di quei Paesi dove il mercato del debito pubblico è più grande, in particolar­e l’Italia. Questo non sarebbe un problema se gli acquisti fossero temporanei ma, se come sembra dall’esperienza delle altre banche centrali, dal Qe si entra ma è poi difficile uscirne, una politica del genere sarebbe altamente divisiva e questo finirebbe per ostacolarn­e la efficacia e la tempestivi­tà.

Concludend­o. È giusto che la Bce si tenga pronta a ulteriori misure straordina­rie. Questo è condizione necessaria a riportare l’inflazione al 2%, cioè a rispettare il suo mandato. Ma la condizione non è sufficient­e. Dati i rischi dell’economia mondiale, l’alta disoccupaz­ione in alcuni Paesi e l’effetto negativo che il debito ha sulla domanda sia privata che pubblica, il nesso tra azione monetaria e inflazione è debole e alcune banche centrali saranno costrette a una escalation delle politiche straordina­rie. Se i governi non dovessero entrare in campo con iniziative altrettant­o decise ci troveremmo di fronte non solo a un insuccesso economico ma anche a una crisi della legittimit­à democratic­a, con istituzion­i guidate da manager non eletti protagonis­te loro malgrado della politica economica. Non c’è tempo da perdere.

Le strategie monetarie delle grandi banche centrali sono intimament­e connesse

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