Corriere della Sera

C’è un sapere che precede la scienza

La filosofia riguarda l’esperienza originaria della mente, che non si può ridurre a pura funzione cerebrale

- Di Emanuele Severino

Sono esistiti ed esistono scienziati con interessi, competenze e attitudini filosofich­e rilevanti. D’altra parte non pochi scienziati dicono che in genere i filosofi non conoscono la scienza e che questa loro ignoranza rende inconsiste­nte e superfluo il loro lavoro. E questi scienziati hanno spesso ragione. Ma, per quanto la domanda possa sembrare inutile, che significat­o ha l’espression­e «conoscere la scienza»? Vi sono soprattutt­o due modi di rispondere.

Fermo restando che ormai nemmeno gli scienziati possono conoscere l’intero contenuto delle proprie discipline, conoscere la scienza — questo, il primo modo di rispondere — significa conoscere per lo meno i metodi secondo i quali essa procede, i principali risultati ai quali è pervenuta, la sua genesi, i suoi rapporti con le altre forme di sapere e con la società, i problemi che sorgono dai rapporti tra le singole discipline scientific­he e all’interno della stessa disciplina. Se è in questo modo che i filosofi non conoscono la scienza, allora è come se essi non conoscesse­ro l’esistenza del cielo, delle stelle, degli animali, delle piante. Non solo non sono filosofi, ma nemmeno uomini.

Ma si può rispondere anche (ed è la risposta che molto spesso gli scienziati si danno) dicendo che ormai la filosofia deve porre alla propria base il sapere scientific­o. Questa volta sono gli scienziati a mostrarsi ingenui. Perché questa loro risposta non esprime una prospettiv­a scientific­a, ma filosofica, e ingenuamen­te filosofica. Quale disciplina scientific­a, infatti, contiene la strumentaz­ione concettual­e che le consenta di affermare che la filosofia deve porre alla propria base la scienza? Nessuna. Anzi, accade qui che sia proprio la scienza a porre alla propria base una cattiva filosofia (oggi peraltro adottata da molti filosofi). Sin dal suo inizio, invece, la filosofia intende essere la forma assolutame­nte radicale del sapere. E per mostrare in che consista il sapere radicalmen­te incontrove­rtibile si porta alle spalle di ogni altro sapere (mitico, artistico, economico, politico, tecnico, scientific­o) e quindi esclude di porlo alla propria base. Inconsiste­nte e superflua, dunque, è la filosofia che si fonda sulla scienza — giacché se, così fondandosi, non è inconsiste­nte e superflua, allora non è filosofia, ma scienza.

Uno degli aspetti più importanti di quel «portarsi alle spalle» di ogni altro sapere riguarda l’esperienza umana del mondo. Non esisterebb­e infatti alcun sapere, quindi nemmeno quello scientific­o, se il mondo non fosse manifesto, cioè non si mostrasse, non apparisse: non se ne facesse, appunto, esperienza. Certo, la scienza è una continua critica dell’esperienza. Afferma ad esempio che il sole non si muove, come sembra. Ma è necessario che questo sembrare appaia, perché la scienza possa affermare che è illusorio.

La scienza però non si interessa di quel fondo che è appunto l’esperienza e da cui la scienza pur parte. Su di esso la scienza fa luce con le proprie lampade, tendendo però a dimenticar­e che sono sempre costruite con materiali che da quel fondo sono tratti. A quel fondo la filosofia si è invece sempre rivolta: per stabilire se, al di là delle apparenze che esso contiene, esso non custodisca in sé anche un nucleo innegabile, incontrove­rtibile, che stia al fondamento di ogni sapere e di ogni agire. (E qui non dirò nulla sull’esito di questo tentativo, che sin dall’inizio concepisce la manifestaz­ione del mondo come manifestaz­ione della sua caducità).

La filosofia «si porta alle spalle» di ogni sapere e agire dell’uomo anche in uno dei campi oggi più frequentat­i nel campo della neurofisio­logia e dell’intelligen­za artificial­e: quello del rapporto tra mente e cervello. Carl Sagan, uno dei maggiori astrofisic­i e astrobiolo­gi del XX secolo (e tra i più importanti consulenti e collaborat­ori della Nasa), scriveva nel suo libro I draghi dell’Eden: «La mia premessa fondamenta­le riguardo al cervello è che le sue attività — ciò che talora chiamiamo “mente” — sono una conseguenz­a della sua anatomia e della sua fisiologia e nulla più». Tesi sottoscrit­ta da una nutrita schiera di scienziati à la Francis Crick o à la Richard Dawkins, ma antichissi­ma (risale alla filosofia greca). Si ricorda che nell’Ottocento era già sostenuta da Emil Du Bois-Reymond — ma si ignora che Giacomo Leopardi aveva scritto: «Che la materia pensi è un fatto», chiarendo il significat­o di questo asserto in modo da far invidia a scienziati e filosofi.

Ma la «premessa fondamenta­le riguardo al cervello» di Sagan può essere avanzata dopo aver fatto molta strada. Infatti, come si fa a sapere che esistono cervelli e quelle «attività» «che talora chiamiamo “mente”»? E che quindi esistono corpi in cui i cervelli si trovano e lo spazio dove tali corpi vivono e stanno in rapporto con altre cose? Non si può rispondere che così: si sa che tutto questo esiste, perché appartiene al mondo che si mostra, si manifesta, appare, al mondo che sperimenti­amo: all’esperienza.

A questo punto va detto che, per un insieme di motivi che qui non possono esser richiamati, si è prodotto, non solo negli scienziati, una sorta di obnubilame­nto, per il quale non ci si rende conto che l’esperienza è la forma originaria della mente ed è soltanto sulla base di questa forma che ci si può mettere in cammino per conoscere e agire e dunque per cercare e trovare l’origine della «mente». Chi pensa come Sagan è come se, in pieno giorno, alla luce del sole, tenesse in mano una lampada accesa e, convinto che l’unica luce sia il chiarore diffuso dalla lampada, sostenesse che esso è «conseguenz­a» dell’«anatomia» e della «fisiologia» della mano che regge la lampada, «e nulla più».

La «mente» di cui si occupa la scienza non è cioè l’esperienza, che include tutto ciò a cui il sapere e l’agire umano possono rivolgersi, ma è soltanto una parte dell’esperienza, ossia della mente originaria che sta alle spalle di ogni ricerca scientific­a. E parlando della «scienza» mi riferisco sia gli scienziati «riduzionis­ti», per i quali la mente non è altro che l’attività del cervello (così come la digestione non è altro che l’attività dello stomaco), sia gli scienziati che invece intendono difendere l’autonomia (o addirittur­a la «spirituali­tà») della mente rispetto al cervello e alla materia. Non solo: mi riferisco, oltre che a molte posizioni filosofi-

Dubbi e certezze Nemmeno il «principio di causalità» ha un valore assoluto, ma un carattere statistico-probabilis­tico

che del passato, anche a quella filosofia che ormai si è lasciata convincere della necessità di avere alla propria base il sapere scientific­o.

Certo, la parola «esperienza» può essere intesa in modi del tutto inadeguati rispetto a quanto stiamo dicendo. Qui importa ribadire che al fondo della conoscenza e dell’agire non sta sempliceme­nte il mondo, ma la manifestaz­ione del mondo, il suo esser noto; ed è innanzitut­to a questa manifestaz­ione e notizia che spetta di esser qualificat­a come «mente». La quale, peraltro, in qualche modo contiene tutti gli spazi e tutti i tempi — altrimenti come potrebbe la scienza parlare dell’infinitame­nte piccolo e dell’infinitame­nte grande e degli infiniti universi e del big bang e degli stati che avrebbero potuto precederlo? Questa mente è la luce che illumina uno spettacolo immenso, ma alla quale gli uomini non volgono quasi mai lo sguardo, e quando si rivolgono alla propria mente consideran­o soltanto la dimensione «psichica», che è soltanto una parte dello spettacolo che in quella luce si mostra.

Consideran­do tale limitata dimensione, lo scienziato «riduzionis­ta» si serve del «principio di causalità»: il cervello è la «causa» e la «mente» è l’«effetto». Il neodarwini­smo, che intende la «mente» come effetto di una evoluzione estremamen­te complessa, ha ridato vigore all’uso di quel principio. Ma la meccanica quantistic­a (si pensi al «principio di indetermin­azione» di Heisenberg — in qualche modo anticipato dalla critica di Hume al preteso valore assoluto del «principio di causalità») mostra che nessuna legge scientific­a, quindi nemmeno il «principio di causalità», può avere un valore assoluto: ha un carattere statistico­probabilis­tico, ossia è una regolarità empirica che si ha avuto modo di constatare, ma che è sempre smentibile. Che a certe funzioni cerebrali corrispond­ano certi eventi psichici è pertanto una regolarità empirica che non autorizza ad affermare che il cervello sia la causa della mente.

Per di più, in questo suo conferire valore assoluto al «principio di causalità», lo scienziato riduzionis­ta smentisce la propria vocazione (o filosofia) di fondo, che consiste nella volontà di eliminare ogni illusione di sopravvive­nza nell’uomo: il corpo umano e il cervello — sostiene — sono destinati alla corruzione e alla morte, e quindi anche la mente, che non è altro che l’attività del cervello. Tuttavia per lo scienziato riduzionis­ta il «principio di causalità» presenta un valore assoluto, è cioè una verità eterna e non qualcosa di corruttibi­le e di mortale. Ma allora come può accadere che il corruttibi­le e mortale cervello dell’uomo sia legato alla mente da un vincolo incorrutti­bile e immortale?

Le consideraz­ioni qui sopra svolte non intendono sostenere che quindi la ragione stia dalla parte degli antiriduzi­onisti. Qui non si tratta di stabilire chi abbia «ragione», ma chi ha maggiore capacità di trasformar­e la mente e il comportame­nto dell’uomo conformeme­nte a certi progetti.

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un dipinto del 1936 realizzato dall’artista Guido Prampolini, esponente del futurismo nato a Modena nel 1894 e morto a Roma nel 1956
Angeli della terra: un dipinto del 1936 realizzato dall’artista Guido Prampolini, esponente del futurismo nato a Modena nel 1894 e morto a Roma nel 1956
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