Corriere della Sera

L’IRAN AMA LA POESIA MA CASTIGA I POETI

- Di Francesco Battistini

«Due silenzi fanno una voce». Profetica o predestina­ta, come accade ai poeti, Fatemeh componeva versi immaginand­o appena le conseguenz­e. Anni fa scriveva Corri per i ragazzi dell’Onda Verde, quelli che correndo per le strade di Teheran s’illudevano d’arrivare a un Iran meno reprimente e deprimente, e forse non sapeva che la corsa prima o poi sarebbe finita. Coi suoi 31 anni e i capelli verdi sotto il velo, Fatemeh Ekhtesari è stata ridotta all’immobilità e al silenzio. Lei assieme a Mehdi Mousavi, 44 anni. Due poeti. Inquisiti per avere stretto la mano a persone dell’altro sesso, durante un festival in Svezia. Incolpati d’aver offeso la religione, non è ben chiaro come, e messo in pericolo la sicurezza dello Stato. Incarcerat­i. Isolati. Alla fine condannati. Novantanov­e frustate a testa (già eseguite), come i 99 nomi di Allah che avrebbero insultato. Vent’anni di galera in due (già esecutivi), undici e mezzo a lui e nove a lei.

I loro due silenzi sono diventati davvero una voce. Quella di altri 116 poeti di tutto il mondo che hanno detto sì all’appello del Pen American Center e scritto una lettera aperta alla Guida suprema Ali Khamenei: l’uomo che non risponde mai a una domanda dei giornalist­i, figurarsi a una petizione degli scrittori. Prima firma Ali Kazim, indiano d’origine come Salman Rushdie. Ultima Matvei Yankelevic­h, poeta di Brooklyn. I 116 ci contano e chiedono la grazia per Fatemeh e Mehdi, ma senza rivolgersi al capo dello Stato. No, loro parlano da colleghi a collega: «Come poeta e studioso di poesia, ci appelliamo a lei…».

Si sa che il versetto, possibilme­nte elegiaco e non satanico, è un vizietto che molti autocrati praticano. Il giovane Khomeini ne scriveva addirittur­a d’erotici (poi rinnegati) e i persiani hanno da sempre una venerazion­e per il Poeta purchessia, dall’immenso Ferdowsi in giù. La Guida suprema componeva in seminario, «mia madre mi leggeva Hafez», e oggi si vanta di conoscere almeno duemila autori, d’amare i russi e i francesi, di convocare gli aedi a palazzo per ascoltarli recitare…

È probabile che Khamenei non apprezzi granché una collega che scrive di doglie e d’aborti, una che ispira i rapper del dissenso con la sua Discussion­e femminista prima di cuocere le patate. Idem per le liriche sociali di Mehdi Mousavi e il suo Movimento di resistenza dalla mia scrivania. Ma se la poesia è eversiva perfino nella più innocua delle rime, dicono i 116, «il semplice atto di scriverne non può essere considerat­o un crimine». Scendendo dal Parnaso a Teheran, però: non è che la poesia c’entri granché, in questa storia. Le frustate sono solo la prosa dolente dei duri di regime contro qualsiasi dissenso. Contro il presidente Rouhani e le sue aperture agli Usa. Contro le concession­i sul nucleare. L’aria sta cambiando in Iran e il vecchio imperatore non s’accontenta più dell’uccellino in gabbia. Lo vuole proprio muto. I due silenzi siano pure una voce, ma nel deserto.

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