IN DIFESA DEL NOSTRO STILE DI VITA
Dopo Parigi Rinunciare ai piaceri della modernità è già perdere la guerra, è già un atto di sottomissione che umilierebbe il nostro mondo di fronte a chi vorrebbe annientarlo
Ilnostro «stile di vita» è una conquista buona e, si spera, duratura. È esattamente ciò che odiano quelli che si fanno esplodere.
Smaltito il grande afflato solidale con la Francia, svanite le note della Marsigliese, spese le lacrime dovute alle vittime dello stragismo jihadista, circola, ultima l’intervista di Carlo Nordio rilasciata al Foglio, una forma di sdegnato compatimento per chi si ostina a difendere il nostro «stile di vita» minacciato dai fondamentalisti e che invece agli occhi dei detrattori di casa nostra, finisce per apparire qualcosa da «fighetti», da sazi consumisti che sventolano la bandiera del bistrot più frequentato anziché quella dell’impegno militante, o addirittura militare. Sembrano dire: tenetevi pure i vostri apericena, il vostro loisir, la vostra mollezza occidentale, fatevi fare a pezzi dai fanatici assassini mentre inneggiate, fatui e irresponsabili, al vostro disordinato, edonistico «stile di vita». Chissà cosa diranno di Salman Rushdie che, in un’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera, ha strenuamente difeso il «mondo della pace e del divertimento» contro quello, lugubre, della guerra al nostro «stile di vita»: «prendete il metrò, andate al ristorante, ai concerti». Non dategliela vinta. Rinunciare ai piaceri della modernità è già perdere la guerra, è già un atto di sottomissione che umilierebbe il nostro mondo di fronte a chi vorrebbe annientarlo.
E invece il nostro «stile di vita» è una conquista buona e, si spera, duratura, ed è esattamente ciò che odiano quelli che si fanno esplodere per paralizzarci con la paura di andare al bar, di andare allo stadio, di andare in discoteca, di andare vestiti come ci pare, di ascoltare la musica che ci pare, di leggere i romanzi che ci pare, di andare al cinema come ci pare, di guardare la tv o «fare l’amore ognuno come gli va» (cit. Lucio Dalla). Di adottare il nostro «stile di vita». Dicono: ma così si sgretola l’ardore della battaglia, così, avvolti e vacui nelle spire del benessere, storditi dai nostri smartphone, lasciamo campo libero ai fanatici che invece sono determinati, concentratissimi, consacrati interamente e senza residui alla guerra santa che ci sterminerà. Così perdiamo la nozione stessa della guerra, del combattimento necessario. Sicuro? Stefano Montefiori ha scritto su nostro giornale che a Parigi ci si sta già abituando all’«israelizzazione» della vita quotidiana: molta doverosa vigilanza, ma anche la consapevolezza che la vita, il nostro «stile di vita», non può fermarsi per decreto. Ecco, Israele è l’esempio che smentisce i timori dei critici occidentali del nostro «stile di vita». Non ha perso nemmeno un frammento del suo spirito battagliero (anzi), ma a Tel Aviv i caffè di Dizengoff Street sono sempre pieni, la movida non conosce sosta, le acque di fronte a Jaffa pullulano di surfisti, le pizzerie e i ristoranti di Gerusalemme sempre rumorosi e affollati. Il pericolo incombe, la paura si fa sentire, i genitori sentono il cuore in gola ogni volta che accompagnano i loro bambini sui bus scolastici, ma non la si dà vinta ai tagliagole e ai kamikaze. La difesa di uno stile di vita è anche la difesa del diritto a essere se stessi.
Invece loro, i nemici, i guerrieri della morte, chiamano «satanico» tutto ciò che assomiglia alla libertà, anche nei suoi aspetti più banali e meno eroici. A Kabul i talebani bruciavano libri, decapitavano i peccatori, frustavano le donne, ma poi impiccavano pure i televisori (davvero) e bandivano la musica. A Teheran bande di barbuti e prepotenti guardiani della fede e della moralità pubblica sorvegliano occhiuti le donne coperte e avvilite per controllare ogni piacere della vista, ogni avvenenza, ogni richiamo peccaminoso e decadente.
I ragazzi del Bataclan sono stati accusati da chi li ha trucidati di essere la personificazione dell’«abominio» e della «perversione». Nei Paesi dominati dall’islamismo eretto a unica legge in grado di dettare e imporre uniformità di comportamenti, le donne non possono entrare negli stadi (troppo divertimento) e in Iran sono state incriminate persino le giocatrici di pallavolo perché scoprivano troppi centimetri del loro corpo. I locali di ritrovo sorvegliati come sentine del vizio. La musica «occidentale» è bandita dalle radio, come emblema di uno «stile di vita» corrotto: lo stesso «stile di vita» dileggiato da chi lo considera una concessione alla modernità rammollita e condannato a morte da chi lo considera l’esempio massimo della depravazione in cui è precipitato il mondo degli infedeli. Sono abolite le discoteche e le librerie libere. In Arabia Saudita, lo ricordava Danilo Taino su queste colonne, c’è un solo cinema, mentre nella sola Parigi ce ne sono oltre trecento. Andare al cinema è il nostro «stile di vita», senza cinema c’è solo buio e tristezza: quale dei due è il mondo migliore? Anche le cuffiette per sentire musica sono migliori, anche gli «apericena», terrificante neologismo che siamo costretti a difendere se qualcuno per punirci vuole farsi esplodere al tavolo del buffet. Questione di stile. Di stile di vita.