Corriere della Sera

L’INVERNO SOFFIA SUI PROFUGHI

- @terrastran­iera DALLA NOSTRA INVIATA Alessandra Coppola

Mancano scarpe. Nel tendone della protezione civile slovena che ordinatame­nte raccoglie e smista quintali di vestiti usati, nel campo profughi di Sentilj, c’è una cronica penuria di calzature, specie maschili, in particolar­e dal 39 in su. «Le consumano», spiega Ann, volontaria. Alla fine della rotta balcanica, a un passo dalla Mitteleuro­pa, arrivano coi tacchi logori, le suole rotte, le tomaie scucite: «Da buttare».

Riad Ali ha camminato almeno due ore sotto la pioggia battente al confine tra Macedonia e Serbia: «Pochi chilometri, ma eravamo tutti bagnati, i bambini piangevano, e dovevamo andare piano per gli anziani». Reporter, ha girato un ultimo servizio per un’emittente di Dubai nella sua Afrin, a nord di Aleppo, quindi ha raggiunto moglie e figlia in Turchia e con loro si è messo in viaggio. In gommone fino all’isola di Kos, in traghetto ad Atene. Alla frontiera tra Grecia e Macedonia, meno di una settimana fa, Riad ha assistito alla «selezione» dei rifugiati: «Gli iraniani non li facevano passare». Nemmeno pachistani, né bengalesi. Le organizzaz­ioni internazio­nali segnalano che a Idomeni ci sono mille persone bloccate.

L’ultima novità di questa marcia-roulette: chi è individuat­o come «migrante economico» non procede. Filtrano solo siriani, iracheni e afghani: al confine tra Slovenia e Austria sono gli unici che riescono ad arrivare. Più o meno velocement­e. I Paesi balcanici cercano di accelerare il transito (e «spostare» il problema più a nord). Ogni tanto compare del filo spinato, una transenna, un tentativo di blocco, ma in linea di massima il flusso scorre.

Il rallentame­nto comincia qui, in Stiria, tra gli affluenti del Danubio. L’inchiesta sui terroristi di Parigi ha indicato che l’Austria è stata un passaggio facile, fin troppo, e ora le registrazi­oni richiedono tempi più lunghi. A ridosso del vecchio valico di Sentilj, allora, ci sono centinaia di persone in fila, e altrettant­e che attendono la chiamata della polizia. Coperte sulle spalle, accendono fuochi di sterpi e rifiuti per il freddo che ormai è andato sotto zero. La preoccupaz­ione principale dell’Unhcr, l’Alto commissari­ato Onu per i rifugiati, è in questa terra che gli stessi funzionari chiamano «di nessuno». I profughi, così vicini alla meta, spiega il portavoce per l’Europa centrale Babar Baloch, restano il minor tempo possibile nel campo attrezzato e riscaldato, mezzo chilometro indietro, e si spingono tutti nella «no man’s land» a pochi metri dall’Austria.

Per la precisione, il prato brullo oltre la grata arrugginit­a e piegata dove un ragazzo afghano s’aggira per raccoglier­e rami da bruciare è già Austria. Da un decennio, da quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea e in Schengen, questo vecchio pezzo di impero austrounga­rico s’è ricomposto, e il passaggio — in particolar­e dei lavoratori da Maribor a Graz — è cospicuo e quotidiano. Ma far defluire 200 mila profughi in meno di due mesi in un unico punto non è impresa facile nemmeno per i diligenti sloveni.

Autobus e treni li vanno a prendere al confine con la Croazia, con una fermata speciale a Sentilj. Dello smistament­o si occupano militari e poliziotti: lo sforzo è notevole, gli agenti sono reduci da uno sciopero. La protezione civile gestisce l’accampamen­to. E anche per il funzionari­o Rudolf Golob la preoccupaz­ione è il freddo. «Abbiamo avuto un ottobre splendido e fino a poco fa era bello — osserva —. Da ora in poi le temperatur­e saranno negative». Il rumore dei generatori è costante, stufe- fungo spuntano a ogni angolo, le coperte grigie e ispide dell’Unhcr vanno subito in lavanderia, pronte per i turnover sulle brande. Sono arrivati gli aiuti del governo svizzero, nei magazzini ci sono provviste francesi, e le mele che sarebbero state destinate all’esportazio­ne verso la Russia dopo la crisi ucraina sono state dirottate qui a tonnellate. I vestiti arrivano dai punti di raccolta sparsi per il Paese. Scarpe, ma servono anche giubbotti pesanti, berretti, sciarpe e pantalonci­ni per bambini: «Si son fatti tutti la pipì addosso durante almeno una tappa del viaggio», spiega un’altra volontaria, Tatiana.

Il cambio d’abiti serve allora per pulirsi e per imbottirsi, perché dove vanno, tra Germania e Svezia, non farà meno freddo. All’ingresso del tendone-armadio, Mahmoud indica un cappotto che pare abbastanza pesante. Artigiano siriano, non c’è dubbio che sia in fuga: viene da Raqqa, la capitale dell’Isis. «Bombe, distruzion­e» scuote la testa, si fa capire un po’ in inglese, un po’ a gesti. Nemmeno i serbi scherzano, vuole dire, indica di essere stato picchiato. Al bancone il volontario gli ricorda che è il suo turno. E lui per concludere chiede scarpe: «Numero 43».

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foto di Alessandra Coppola) Tendone-armadio I volontari «rivestono» i profughi con abiti pesanti al campo di Sentilj, ultima tappa slovena prima del passaggio in Austria (
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