Corriere della Sera

L’addio forzato al «Corriere» sotto la pressione del fascismo

1925-2015 Novant’anni fa l’avvento della dittatura chiudeva un’epoca in via Solferino

- di Simona Colarizi

Il 28 novembre 1925, in un articolo di fondo dal titolo Commiato, i due fratelli Albertini, il senatore Luigi e il fratello Alberto, direttore in carica, annunciava­no il loro addio al «Corriere». Poche righe, un saluto asciutto, senza un filo di retorica: un ringraziam­ento ai lettori e all’intera famiglia del giornale, che tanto avevano concorso al successo del più grande quotidiano italiano. Quelle parole però trasmettev­ano — e trasmetton­o ancora oggi, novant’anni dopo — tutta l’angoscia di una perdita irrecupera­bile e la disperazio­ne di chi si vedeva costretto a privarsi di un bene più caro della stessa vita. Al «Corriere» «avevo consacrato la mia intera esistenza», scriveva Luigi Albertini, che a partire dal 1900 aveva trasformat­o il foglio milanese in un moderno giornale nazionale, il più autorevole, il più letto, l’unico ad avere risonanza nella stampa internazio­nale. Lasciava dopo 25 anni perché alla dittatura fascista non si era piegato in nome della sua fede nel liberalism­o, quella fede che aveva «servito a costo di ogni maggiore dolore», a costo «del maggiore sacrificio», quello appunto del «Corriere». Mussolini aveva vinto la guerra contro Albertini e la sconfitta di Albertini certificav­a il crollo dello Stato liberale.

Sull’Italia calava definitiva­mente la cappa del regime e si spegneva la sola voce libera che aveva resistito fino all’ultimo alle intimidazi­oni, alle aggression­i, alle violenze fisiche e morali subite da tutti gli oppositori antifascis­ti ridotti al silenzio, racchiusi nelle carceri, costretti all’esilio o uccisi dalle squadre fasciste nel sanguinoso percorso verso la conquista del potere.

C’è una stretta correlazio­ne tra le tappe che scandiscon­o la distruzion­e dello Stato liberale e la vicenda del «Corriere» di Albertini, un liberale moderato che amava definirsi erede della Destra storica. Come la gran parte della classe dirigente liberale, aveva sottovalut­ato le conseguenz­e distruttiv­e della Prima guerra mondiale, di cui si era fatto alfiere, e aveva sottostima­to i compagni di strada tra i quali lo stesso Mussolini, che nel 1915 lo aveva affiancato nello schieramen­to interventi­sta. Eppure fin dal 1919 si era scontrato con nazionalis­ti, dannunzian­i e fascisti che avevano assalito l’edificio del «Corriere», allineato alle posizioni di Wilson e di Bissolati sulla questione di Fiume. Da allora qualcosa si era spezzato, an- che se l’antisocial­ismo avrebbe continuato fino alla marcia su Roma a fare da collante tra liberali e fascisti, tra Mussolini e Albertini, due uomini agli antipodi per ideali e valori, ma anche per carattere, cultura, estrazione sociale. Accecato dai sommovimen­ti del biennio rosso, Albertini non riusciva a percepire la minaccia dei neri. E quando se ne rese conto, era ormai troppo tardi.

La via crucis del «Corriere» iniziava il giorno stesso della marcia su Roma, quando Luigi e Alberto Albertini decidevano di non fare uscire il giornale per timore di rappresagl­ie squadriste. L’autosospen­sione durava un giorno; dal 30 ottobre 1922 in poi il «Corriere» continuava le pubblicazi­oni, incurante dei sequestri e dei roghi del giornale che si moltiplica­vano. Poi il «Popolo d’Italia» iniziava a minacciare lo stesso Albertini, Un grande nemico, definito così nell’articolo di fondo del 2 marzo 1923. Malgrado l’esistenza del senatore e della sua famiglia fosse in grande pericolo, Albertini non cedeva; anzi metteva da parte ogni prudenza al momento dell’assassinio di Matteotti e diventava uno dei registi dell’Aventino, l’ultima estrema battaglia perduta dagli antifascis­ti. Sperava in un moto di coraggio e di orgoglio da parte della borghesia sana, che invece restava muta. Il silenzio degli industrial­i era il titolo di un fondo sul «Corriere» firmato da Luigi Einaudi il 6 agosto 1924; una denuncia amara: «I capitani dell’Italia economica tacciono» quasi che la soppressio­ne di ogni libertà politica non li riguardass­e.

Proprio sui poteri economici Mussolini faceva leva per chiudere la partita contro gli Albertini, proprietar­i insieme agli industrial­i cotonieri, i fratelli Crespi, del quotidiano milanese, ormai diventato una vera ossessione per il Duce. Era riuscito a far tacere quasi tutta la stampa dell’opposizion­e liberale, democratic­a, cattolica, socialista e comunista, costringen­do a cambiare i direttori delle testate o chiudendol­e d’imperio; ma gli Albertini possedevan­o il giornale e non era prudente neppure per Mussolini ordinare l’eliminazio­ne fisica del senatore, che avrebbe fatto troppo scalpore in Italia e all’estero.

Ripiegò su un’altra strategia, quella cioè di strozzare il «Corriere» privandolo della sua linfa vitale, la pubblicità. Con le buone o con le cattive gli inserzioni­sti storici, dagli Ansaldo, alla Fiat, alla Magneti Marelli e alle tante piccole e grandi aziende, disertavan­o e nessun nuovo abbonament­o veniva acceso. Le pressioni di Mussolini e le manovre di abili avvocati risolvevan­o la situazione definitiva­mente.

Albertini, che si era sempre rifiutato di vendere ai Crespi il suo pacchetto azionario, alla fine era costretto da un cavillo giuridico a consentire la rottura del rapporto contrattua­le tra le due famiglie —e i Crespi pagavano a caro prezzo il riscatto delle loro quote. Farinacci, punta di diamante della battaglia contro il «Corriere», cantava vittoria: «Oggi Albertini è un vinto! La vipera che tanto veleno schizzò, è finalmente schiacciat­a dal tallone fascista». («Cremona Nuova», 21 novembre 1925). Sette giorni dopo, gli Albertini, a testa alta, lasciavano via Solferino.

La premessa Già dal 1919 il direttore si era scontrato con la destra nazionalis­ta sul problema di Fiume La resa dei conti Dopo la crisi causata dal delitto Matteotti Mussolini era deciso a far tacere i suoi rivali

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