IL PAESAGGIO NON È SOLTANTO UNO SFONDO
Un avvincente romanzo sull’arte: Terre senz’ombra (Adelphi, pp. 472, 50), l’ultimo libro di Anna Ottani Cavina. Si tratta di un romanzo involontario, che riesce a coniugare erudizione e affabulazione. Abile nel portarsi oltre le secche di un filologismo asettico e impersonale, la Ottani Cavina nelle sue pagine fa rivivere quasi con leggerezza documenti pittorici poco esplorati. E li dispone all’interno di una vasta pinacoteca, nella quale incontriamo dipinti che finora si erano lanciati tra di loro solo «segnali intermittenti».
Nelle stanze di questo sontuoso museo immaginario ci imbattiamo, tra gli altri, in Poussin, in Thomas Jones, in Granet e in Elsheimer, i quali ci offrono il miglior ritratto pittorico possibile del nostro Paese tra Sei e Ottocento. Per loro, il paesaggio italiano non è quinta teatrale, ma protagonista decisivo della rappresentazione, forma simbolica, totalità avvolgente, «paradigma della modernità», interlocutore dotato di una propria densità linguistica, luogo catartico di metamorfosi e di risonanze.
Nel Seicento, muovendo dalla convinzione secondo cui sarebbe inscindibile il legame tra apparenze e realtà e assegnando un’assoluta centralità alla percezione retinica, i paesaggisti credono nell’oggettività del vedere: modellano una «bellezza perfetta che trascende la disorganicità della vita». Nei secoli successivi, saranno inquietati da molte domande: capiscono che «l’intuizione razionalista» non potrà mai penetrare gli enigmi della natura; si consegnano perciò a «processi astrattivi» o a «risposte emozionali», per lambire «l’essenza non visibile». Scorre un film interamente girato in esterni da registi di diversa provenienza — francesi, tedeschi, russi, scandinavi, olandesi — che, pur se con accenti differenti, sono accomunati da alcuni aspetti: mettono in scena una natura che si manifesta non come forza vasta e tremenda, né come incarnazione di un sogno, ma come spazio-stato d’animo, governato da geometrie nette e curve, avvolto da una luce «gialla, liquida, liberamente fluente» (Henry James). Un misterioso vapore capace di trasformare le cose, di arrotondarne i dettagli e di sottolinearne gli angoli, traendone visioni di bellezza. Una specie di proustiano fondu che collega cattedrali, palazzi, vigne, boschi, fiumi, laghi e colline dentro una sublime unità estetica.
Per interpretare queste divagazioni paesaggistiche, senza mai incrinare il rigore storiografico del suo discorso critico, la Ottani Cavina costruisce il suo trattato come un mosaico nel quale tessere teoriche e tessere monografiche convivono grazie al ricorso a una sorta di sofisticata «arte della conversazione»: le sue pagine sembrano mimare le conversation piéces sperimentate dai pittori inglesi del XVII e del XVIII secolo. Nasce così un diario affettivo, aperto a svelamenti e a scoperte, in cui si compone una fitta trama di geografie e di personaggi. Un taccuino frammentario la cui maggiore qualità, forse, è di tipo letterario.
In linea con la migliore tradizione del saggismo d’arte italiano, la Ottani Cavina elabora una sapiente riscrittura per verba delle immagini dipinte: le fa parlare. Ventriloquo impegnato a dar voce a quel teatro di fantasmi che è ogni autentica opera d’arte, estrae con gli occhi il pensiero segreto dei «suoi» artisti. E restituisce i valori figurativi attraverso un’acuminata trasposizione verbale. In filigrana, si avvertono echi della grande lezione di Roberto Longhi, il quale aveva invitato gli storici dell’arte a togliere i quadri dal «mutismo così pericoloso per la loro stessa incolumità fisica ; parlarli bisogna. Nulla di estetizzante è nell’esigenza di riconsegnare la critica nel cuore di una attività letteraria».
La presentazione Il volume di Anna Ottani Cavina Terre senz’ombra. L’Italia dipinta sarà presentato dall’autrice oggi a Milano alle 17.30 nella Sala della Passione della Pinacoteca di Brera. Interviene Pierre Rosenberg. gia direttore del Louvre.