Corriere della Sera

«Parigi sbaglia: non vanno usate truppe di Assad»

- Di Paolo Valentino

Quando apre la porta di casa sua, nel bosco di Grunewald, Joschka Fischer è al telefono. Mi fa segno di entrare. Parla animatamen­te con uno dei suoi ex collaborat­ori al ministero degli Esteri. Ha appena appreso dalle agenzie che la Francia pensa a una collaboraz­ione militare sul terreno con le truppe di Assad in Siria. E sta controllan­do la veridicità della notizia. «Sarebbe un errore catastrofi­co, colossale. Bisogna dirlo», ripete l’ex ministro degli Esteri tedesco più volte, prima di salutare e chiudere la conversazi­one.

Perché l’idea di usare a terra anche le truppe di Assad la preoccupa tanto?

«Perché sarebbe lo stesso errore fatto dagli americani in Iraq con il governo Maliki, ma molto peggiore: quella scelta ha spinto i sunniti iracheni verso l’Isis. In Siria una collaboraz­ione militare con Bashar Assad spingerebb­e tutti i ribelli sunniti nelle braccia del Califfato. E mentre in Iraq erano una minoranza, in Siria i sunniti sono maggioranz­a. Se abbiamo bisogno di “boots on the ground”, non devono essere quelli dei soldati di Assad».

Come dobbiamo comportarc­i con Assad allora?

«Le forze del vecchio regime non possono esser tenute fuori da una soluzione politica, ma una collaboraz­ione militare è tutt’altra cosa. Fra l’altro produrrebb­e un’ulteriore emorragia di profughi».

Siamo in guerra, come dice François Hollande, oppure no?

«Non è un problema di definizion­e. La guerra in Siria deve essere conclusa al più presto. I rifugiati, il terrorismo dell’Isis, la catastrofe umanitaria per milioni di persone: non si può più andare avanti così, l’intera regione rischia l’infezione. La stabilità di tutta l’area mediorient­ale è a rischio».

Quindi, che fare?

«L’Isis va sconfitto con mezzi militari e politici. Il mio consiglio è di collegare strettamen­te la grande alleanza che va consolidan­dosi con il processo di Vienna per la soluzione politica. Sarebbe meglio se quest’ultimo fosse portato sotto l’egida dell’Onu. Ma non si deve stabilire un linkage tra Ucraina e Siria, che devono rimanere separate, così come è successo nel caso del negoziato nucleare iraniano. E non si deve collaborar­e militarmen­te con Assad. Non possiamo dimenticar­e che nel contenitor­e siriano sono stratifica­ti diversi conflitti, quello tra Isis e Occidente, quello tra sciiti e sunniti, quello tra Arabia Saudita e Iran per l’egemonia regionale e infine quello interno al mondo sunnita che porta al nodo decisivo: quale forma di islamismo sunnita prevarrà? Quello wahabita o una forma moderata? Se vincesse il primo sarebbe fatale».

Ma l’idea della coalizione mondiale sostenuta da Hollande è praticabil­e?

«L’idea è giusta. Ma la Francia non ha le forze politiche e militari per guidarla. Solo gli Stati Uniti possono farlo, ma non lo fanno».

Qual è la sua critica all’atteggiame­nto degli Stati Uniti? In fondo fin qui si sono fatti carico della maggior parte dei raid aerei.

« Solo gli Usa posseggono i mezzi militari necessari, la capacità di impiegarli per un lungo periodo e l’influenza politica per guidare un’alleanza di questo genere. Nessuna potenza europea e neppure la Russia hanno tutte queste capacità, sebbene Putin pensi il contrario. La riluttanza americana è un grosso errore».

L’argomento dell’Amministra­zione americana è quello che non si può montare un intervento su larga scala, se non si hanno prospettiv­e e piani chiari per il dopo.

«Non si tratta di un intervento su larga scala, non dobbiamo ripetere gli errori del passato. Non è stato saggio da parte di Obama indicare una linea rossa e poi non agire una volta che Assad l’ha oltrepassa­ta. Il prezzo pagato in termini di credibilit­à è stato altissimo. Ora occorre lavorare per un governo di unità nazionale in Siria e allo stesso tempo porre fine alla guerra. Sul piano militare, secondo me, possono bastare le forze speciali, non solo americane ma di un certo numero di Paesi, in collegamen­to con raid aerei coordinati e intensific­ati».

Quali sfide pone all’Europa lo Stato Islamico?

«Quando l’Europa non si preoccupa dei conflitti nelle regioni vicine, questi conflitti arrivano in Europa. E si illude chi pensa di poter gestire le emergenze da solo. L’Europa ha di fronte gravissime minacce alla sua sicurezza e sfide strategich­e con cui deve misurarsi. Primo, è giunto il momento per l’Europa di rafforzare il proprio deterrente difensivo. Secondo, la diplomazia europea deve essere più attiva, veloce e determinat­a nel prendersi carico di questi conflitti. In Siria è stata di fatto assente. Questo non deve ripetersi. Infine, l’Europa deve impegnare più risorse dove sono necessarie: trovo assurdo, per fare un esempio che conosco, che la Germania abbia ridotto i fondi all’Unhcr (l’Alto commissari­ato Onu per i rifugiati, ndr). Il 13 novembre ha segnato una cesura. Un membro dell’Unione è stato aggredito e la solidariet­à concreta è dovuta. Per prima volta l’intera Unione è sotto minaccia anche militare e deve reagire. La domanda è se lo farà insieme o agirà in ordine sparso».

La Turchia sembra la variante impazzita di questa vicenda. Come comportars­i con Ankara?

«Non possiamo fare a meno della Turchia, partner difficile ma irrinuncia­bile. L’errore grave lo hanno fatto Merkel e Sarkozy nel 2007, quando sbatterono la porta dell’Unione in faccia a Erdogan. Non è semplice, ma la Turchia è fondamenta­le per gli interessi europei nel Mediterran­eo, nel Medio Oriente, nel Caucaso, nel Caspio, fino all’Asia Centrale».

Teme che il contrasto di Ankara con la Russia vada fuori controllo?

«È nell’interesse vitale di ambedue le parti ridimensio­nare la vicenda. Dobbiamo ad ogni costo impedire una ulteriore escalation».

In che modo possiamo impegnare positivame­nte l’Iran oltre la vicenda siriana?

«Dobbiamo ampliare i temi della discussion­e con Teheran, prendere in conto i suoi interessi senza per questo ferire quelli di altri protagonis­ti della regione. Mi riferisco all’Arabia Saudita: è per noi prioritari­o che il rapporto tra Teheran e Riad sia equilibrat­o. L’Iran ha un ruolo di primo piano nella partita in corso».

Le crisi, si è sempre detto, sono il lievito dell’Europa. È così anche questa volta?

«La crisi dell’euro e quella dei rifugiati hanno distrutto la solidariet­à interna. Nel caso del terrorismo è diverso, la solidariet­à c’è, viene espressa. Resto del parere che sotto la pressione di una crisi gli europei scelgono sempre di andare avanti. Quello che però mi preoccupa è il ritorno del neo-nazionalis­mo: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, la prospettiv­a del Brexit, il ruolo del Front National in Francia e di forze anti-europee in Italia e perfino in Germania. C’è il pericolo che il neonaziona­lismo blocchi quantomeno nuovi passi avanti dell’integrazio­ne. Penso anche però che queste forze non abbiano nulla da proporre, tranne il ritorno al passato. Per questo rimango ottimista. L’opinione pubblica non è un dato immutabile, occorre combattere per conquistar­la. Forse questa crisi ci insegnerà a contrastar­e il neo-nazionalis­mo. L’Europa non è più scontata, ma di nuovo un’idea per cui bisogna lottare».

Ma ha senso oggi parlare di prospettiv­e e grandi progetti europei?

«Non è il momento di lanciare nuovi dibattiti istituzion­ali, prima dobbiamo affrontare e vincere sfide concrete. Certo, dobbiamo sempre avere in testa la direzione: l’Europa è un lungo viaggio e non dobbiamo mai perdere di vista l’obiettivo finale».

Sarebbe lo stesso errore fatto dagli Usa in Iraq. In Siria una collaboraz­ione con Assad spingerebb­e tutti i ribelli sunniti nelle braccia del Califfato. E produrrebb­e un’ulteriore emorragia di profughi

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 ??  ?? Guerriere Soldatesse curde, affiliate alle forze ribelli siriane riposano nella regione di Rojava, dove infuriano i combattime­nti con l’Isis ( foto di John Moore, Getty Images). Sotto, il tedesco Joschka Fischer
Guerriere Soldatesse curde, affiliate alle forze ribelli siriane riposano nella regione di Rojava, dove infuriano i combattime­nti con l’Isis ( foto di John Moore, Getty Images). Sotto, il tedesco Joschka Fischer
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